Cultura

«Il volantino», malìe di erbacce e arbusti

«Il volantino», malìe di erbacce e arbustiEmmanuelle Pagano davanti al lago Salagou (di cui parla nella raccolta «Una volpe a mani nude», uscita per L’orma) – Foto di Christine Royer

Inediti Uno stralcio del racconto che la scrittrice francese leggerà domani allo Stadio Palatino, nel Parco archeologico del Colosseo, durante la serata di apertura del festival Letterature

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 12 luglio 2022

Nella buca delle lettere, come tutti quelli che non si sono presi la briga di incollare l’adesivo «no pubblicità», ricevo dei volantini. E li leggo. Non so perché ma li leggo, tutti, dall’inizio alla fine. Le promozioni coloratissime dei supermercati. Le graziose ciarle dei santoni che promettono di risolvere qualsiasi cosa, perfino il riscaldamento climatico e il Covid 19. Le richieste frettolose e quasi disperate degli agenti immobiliari che cercano un bene da vendere in questa nota megalopoli del Sud Ovest della Francia dove oggi tutti vogliono abitare. Le proposte zelanti degli assi del bricolage. Le baby-sitter appena uscite dall’infanzia che cercano bambini da tenere. E, stamattina, la presentazione commerciale del progetto Riv’Air, con le immagini al computer degli edifici in vendita e tutta un’improbabile scenografia attorno agli stabili, dalla decorazione virtuale da quattro soldi agli alberi irreali e senza ombra – vagamente somiglianti a dei pioppi –, ai pupazzetti di mamme e papà che si tengono per mano con i figli che scorrazzano felici nel parco. Il tutto in una bella carta patinata dai colori pastellizzati, per farci venire voglia di investire sulla sponda di fronte. (….).

DA DUE ANNI OSSERVO l’evoluzione del progetto su internet. Da quando so che non rischio più di incontrarci il fantasma di mia madre. Però non ho ancora osato andare a vedere i lavori da vicino. Certe sere esco dallo studio e porto a spasso sul lungofiume la mia memoria impraticabile. Guardo le luci del cantiere. Prima che scomparisse, mi fermavo proprio di fronte al cartello «Rivier’Art», scritto con grosse lettere nere su uno sfondo astratto dai colori accesi. Era il nome di quell’immenso centro sociale occupato oggi trasformatosi in questo ghiottosissimo progetto che tanto fa gola agli investitori.
Finché non ho ritrovato la sua tomba, due anni fa, mi chiedevo se le ruspe avrebbero rivoltato il corpo di mia madre, prematuramente invecchiato e senza vita, così come quel fotografo amatoriale aveva casualmente scoperto il mio durante un sopralluogo, il mio corpo nuovo di zecca e vivissimo, vivissimo contro il suo che in quel momento lo era ancora, entrambe raggomitolate tra gli ailanti.
Tengo in mano il volantino e ho l’impressione che finalmente il progetto si stia per realizzare proprio qui, sotto i miei occhi, come se, per magia, finalmente la carta patinata raschiasse i miei ricordi inaccessibili e rendesse più tangibile il processo di ricoprimento. In fondo, poi, si tratta più di una depurazione che di un ricoprimento: una pulizia delle mie origini fangose e confuse. La mia primissima infanzia inquinata, finalmente lavata con la candeggina. La primissima infanzia precedente alla mia nascita, i primi giorni, quelli cui non ho alcun accesso, né foto né video né parole materne.
Talvolta mi sembra tuttavia di rivisitare con la memoria quelle vecchie fabbriche, anche se so che è impossibile. Mi sembra di sentire la pioggia riecheggiare ancora nel mattonificio in rovina e gocciolare dall’immensa ciminiera, come prima – quel prima di cui non dovrei potermi ricordare, un prima di essere nata, addirittura – mentre mia madre riposava il pancione su uno dei divani distrutti, allineati davanti alle decine di contenitori in vetro sotto le tettoie degli hangar. Forse qualche accordo di chitarra si perdeva nell’immenso squat chiamato «Rivier’Art», contrappunto esasperante alle sciccosissime e costose ville della Riviera, nel Sud Est del paese, prima che l’odierna scena musicale non si impossessasse, elettrificando e amplificando, già a colpi di euro, quello che inizialmente era soltanto un rifugio di tossici, e molto prima che i promotori ripulissero definitivamente, spegnendole e insonorizzandole, le notti di erranza e di concerti improvvisati.

MI SEMBRA DI SENTIRE attraverso il ventre di mia madre il vento che risaliva dall’umidità del fiume per deporla sugli ailanti, quando si concedeva qualche passo in mezzo ai giovani rami.
In realtà non so esattamente cosa facesse lei, mia madre, a parte sballarsi – e questa è una certezza, sono nata dipendente – i miei ricordi non sono altro che una ricostruzione a partire dal poco che so, il poco che ho strappato alla mia seconda famiglia di accoglienza, quella in cui sono rimasta più a lungo, il poco che mi hanno raccontato quando insistevo, senza tregua, quando volevo sapere, ancora, da dove venivo.
Leggo il volantino dall’inizio alla fine. (…). Riv’Air comprenderà un 40 % di vegetazione che ricoprirà gli ailanti e le ortiche, i rovi e il fango. Gli architetti dicono di voler «generare il maggior numero possibile di relazioni tra gli abitanti, la Garonna e una profonda zona vegetale», e mi chiedo cosa voglia dire, se non proprio ciò che ho sempre immaginato: il corpo di mia madre strafatta ricoperto di melma, mangiato dagli acidi e da anni di oblio sedimentato.

QUANDO HO DETTO ai miei educatori che accettavo di andare alla scuola di progettazione paesaggistica in alternanza scuola-lavoro, mai avrei pensato che quella filiera mi avrebbe portata, giusto due anni fa, sulla tomba di mia madre. Stupidamente, credevo fosse sepolta lì dove sono nata, lì dove è morta, da qualche parte in mezzo ai cinquanta ettari di fabbriche inquinate da un secolo e mezzo di industria. Mia madre seppellita nella melma portata dal fiume che lambisce le fabbriche, una melma impregnata di acido solforico, di solfato di alluminio e di concime fosfatico e, più in là, di metalli pesanti e prodotti petroliferi. Immaginavo il suo corpo tutto infagottato in quella melma, rosicchiato dagli acidi, e i cui pochi resti si sarebbero presto mischiati ai calcinacci dei lavori, divenendo impossibili da identificare.
Non immaginavo che potesse essere sepolta come si deve, per giunta non nel settore degli indigenti, nel grazioso cimitero di un paesino alle porte della megalopoli. Sapevo che era morta qualche anno dopo la mia nascita, già otto o dieci anni fa, in qualche punto della vecchia fabbrica sulla sponda destra del fiume, non si sa bene di cosa, se di infarto, overdose, o suicidio.

FATTA ECCEZIONE per l’interno degli edifici, la fabbrica dove mia madre è morta e dove io sono nata era occupata dagli ailanti. Quella specie di via di mezzo tra arbusto e albero, che viene chiamata anche pianta dei cani, cresceva a vista d’occhio e gettava germogli per riprodursi quando qualcuno tentava di abbatterlo: i suoi polloni agiscono come un sistema di difesa. Anche se non vive a lungo, una cinquantina d’anni al massimo, è di una vivacità e di una grazia che nessun tiglio del progetto Riv’Air potrà mai riprodurre. Una grazia che, ancora quindici anni fa, contrastava con la sporcizia e l’inquinamento del luogo.
Quegli ailanti sfilacciati e diffidenti hanno nascosto mia madre durante le ultime contrazioni, durante l’espulsione. E poi l’ha trovata il fotografo, sanguinante e senza fiato, mentre cercava di immortalare una veduta del fiume attraverso gli arbusti. E ha trovato anche me, raggomitolata contro di lei e avvolta nel suo cappotto. Ci ha trovate entrambe, attaccate dal sangue e dai liquidi, ancora legate da un cordone che mia madre aveva rinunciato a tagliare. Forse ha scattato qualche foto. Ma prima ha chiamato i soccorsi, che mi hanno separata da lei. Salvandomi.
Sulla sua tomba, nel paesino in cui svolgevo il tirocinio per la scuola, c’era una foto di mia madre, ma non quella scattata dal fotografo. Una foto in cui ha pressappoco la mia età, una foto di lei in cui è ancora in salute, prima di essere devastata dalla droga e dall’alcol. Una foto di lei in cui mi somiglia così tanto che sono rimasta a guardarla – a guardarmi – immobile per diversi minuti, con le mani nei guanti, tra le erbacce che invadevano la tomba affianco alla sua.
Avevo la sensazione che il suo viso mi guardasse, mi prendesse a testimone della sua scomparsa. Sorrideva, come indifferente alla morte, e mi chiedevo per quanto tempo ancora avrebbe sorriso così, forse finché l’erosione degli elementi e degli anni avrebbero cancellato i suoi tratti facendola scomparire sul serio.
(….) Sulla sua tomba non c’erano erbacce. Con ogni evidenza qualcuno se ne prendeva cura. Fiori freschi e teneri come il suo aspetto sulla fotografia. Delle peonie, forse, all’epoca ancora non conoscevo bene i nomi dei fiori. Ero una principiante.

HO LASCIATO UN MESSAGGIO sulla tomba di mia madre, o piuttosto ho lasciato delle cifre, quelle del mio numero di telefono, scritte su un pezzo di carta trovato nella spazzatura del cimitero – pagine del quotidiano Sud Ouest che di certo erano servite a proteggere dei fiori freschi. Ho infilato il foglio di giornale sotto una pietra, ben in vista sulla lapide, nella speranza che per un po’ non venisse a piovere. E mi hanno contattata, quelli che si prendono cura della sua tomba da una decina d’anni, si tratta di un collettivo che tenta di fare qualcosa quando muore un senzatetto. Avevano incontrato mia madre, la conoscevano. Non l’hanno mai dimenticata e almeno due volte l’anno, a Ognissanti e all’anniversario della sua morte, andavano a occuparsi della sua tomba, mentre io crescevo nell’altra famiglia.
Mia madre era la loro prima «morta isolata», ossia una persona deceduta i cui famigliari non sono stati rintracciati o non vogliono farsi carico del funerale. Eppure io c’ero, sapevano che esistevo, visto che, a quanto pare, mia madre parlava di me, solo che non sapevano come contattarmi.
(…) Adesso non sono più una principiante, adesso conosco bene i nomi dei fiori, quelli degli arbusti e perfino degli alberi, lavoro per una grossa ditta di progettazione paesaggistica, che ha risposto invano alla gara d’appalto di Riv’Air. L’ha vinta uno dei loro concorrenti, aggiudicandosi il cantiere e il suo 40 % di vegetazione. Se l’avessimo vinta noi, avrei insistito per sostituire i pioppi con gli ailanti. (Traduzione di Camilla Diez)

 

SCHEDA

Sono storie impreviste quelle che compongono «Una volpe a mani nude», l’ultima raccolta di racconti della scrittrice francese, nata nel 1969, Emmanuelle Pagano (L’orma, pp. 320, euro 22, traduzione di Camilla Diez). Le vicende di donne e uomini ai margini, senza altre rivendicazioni che quella di esistere, narrate con una scrittura lucida e sensuale. Di ognuno Pagano ripercorre le memorie, interseca i destini, restituisce le sofferenze e le possibilità di riscatto. I libri di Pagano sono tradotti in molte lingue e l’autrice ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Prix Wepler e, nel 2009 per «Gli adolescenti trogloditi», già pubblicato dall’editrice L’orma in traduzione italiana, il Premio dell’Unione europea per la letteratura.

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