Cultura

Il linguaggio dissacrante che ispira legami creativi

Il linguaggio dissacrante che ispira legami creativiWerner Büttner e Albert Oehlen, « Friendship. Collaborative Work from Dada to Now» – foto di Marek Kruszewski

Arte «Friendship. Collaborative Work from Dada to Now». La mostra, allestita al Kunstmuseum di Worlfsburg è visitabile fino al 24 settembre

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 giugno 2023

Wolfsburg, la città operaia della Volskwagen fondata da Hitler nel 1938, pullula di centri commerciali, piccoli bar, homeless, Cineplex, pop-corn, pozzanghere, incensi e kebab. Alle estremità del decumano, c’è un planetario, un museo della scienza di Zaha Hadid e l’elegante quartiere espositivo dell’automobile. Dalla stazione lungo il fiume campeggiano le quattro ciminiere della Volskwagen: immagine sironiana con sconcertante spiazzamento temporale.

IL KUNSTMUSEUM, dove si è inaugurata la mostra Friendship. Collaborative Work from Dada to Now, è una cattedrale nel deserto dell’era post-industriale. Curata da Blandine Chavanne con la consulenza scientifica di Jean Jacques Lebel, l’esposizione è vivacemente dissacrante. Nella penombra si percepisce la trasgressione, la provocazione e l’oscenità già dal 1871 nell’Album zutique, il libro «pre-dadaista» di poesia, disegni, vignette, scatologie schizzate da autori vari tra i quali Paul Verlaine e Arthur Rimbaud, amanti sublimi e maledetti della Comune di Parigi.

Il processo creativo delle opere plurali è trasversale, interdisciplinare, fluido e inafferrabile. I disegni a più mani della pratica del Cadavre Exquis – per la quale i surrealisti continuavano i tratti fatti da altri senza vederli perché celati – sono esposti come spiritelli che zampettano sulle pareti. Tra questi, domina l’enigma di una misteriosa figura biomorfica su sfondo nero disegnata da Nusch e Paul Eluard. Poi compaiono gli angeli folli, Marcel Duchamp e Man Ray, che giocano a scacchi sui tetti di Parigi in Enter’acte (1924), il film di Francis Picabia e René Claire, musicato da Satie che sembra una allucinazione senza tempo.

Con le opere collettive si annullano i confini delle individualità, nascono improvvisazioni e imprevisti e si sottrae l’arte al mercato. Le tappe degli amitiés esposti, comprendono installazioni, scatoline, fiammiferi e manifesti, di Yoko Ono e George Maciunas; Nam June Paik e Josep Beuys; George Brecht e tutta la costellazione fluxus; le Guerrilla Girls e le bacheche collettive di Daniel Spoerri così importanti perché, secondo l’artista, «Le meilleur de moi-même , ce sont mes amis».

DISTINGUERE I SEGNI è difficile, le personalità si fondono nei disegni sporchi e aggressivi di Dieter Roth e Arnulf Rainer, due artisti collerici, alcolici, esuberanti, che pur amandosi si insultano e si affrontano. Il linguaggio è un virus perché è un perfetto sistema di controllo e, per William S. Burroughs, spezzarne la linearità è una necessità: occorre sabotare, disobbedire, essere nomadi, esattamente l’opposto di ciò che accade oggi. Il film Cut Ups (1966) di Burroughs e Brion Gysin, è un cut up visivo, ipnotico, sperimentale con una voce che ininterrottamente dice «Yes, Hallo» come un mantra, mentre le immagini scorrono intervallate da una spiazzante dream-machine. Il gioco e lo humor si accompagnano però a cupe inquietudini e oscuramenti.

Il centro di tutta la mostra è il Grand Tableau Antifasciste Collectiv (Gtac). Un’opera dipinta da Lebel, Enrico Baj, Roberto Crippa, Gianni Dova, Antonio Recalcati, Errò, nel 1960 e sequestrata, per 25 anni, dall’ufficio affari esteri del Vaticano per vilipendio alla religione cattolica. Il quadro nasce nello studio di Crippa, come reazione all’arresto di Djamila Boupacha, attivista algerina del Fln durante la guerra d’Algeria. La ragazza ha 23 anni quando viene violentata e torturata dalla polizia ad Algeri e condannata a morte con l’accusa di avere messo una bomba in un bar. Il mondo culturale francese si rivolta contro il fascismo colonialista del proprio governo, Simone de Beauvoir pubblica un articolo infuocato su Le Monde e poi scrive un libro in sua difesa – «e adesso non potrete più balbettare che non sapevate».

Picasso le fa un ritratto, milioni di manifestanti si mobilitano contro la tortura e la violenza sul corpo delle donne. Djamila, oggi novantenne, si rivolge nel ‘62 a Gisèle Halimi, un’avvocata straordinaria, e denuncia i suoi torturatori. La ferrea determinazione delle due donne fa saltare il banco.

In quell’atmosfera, prende corpo Gtac e, alla mostra Anti-Proces 3 alla Galleria Brera, organizzata dallo stesso Lebel e Alain Jouffroy, l’opera viene messa sotto sequestro, proprio come facevano i nazisti dichiarando «degenerata» l’arte contemporanea. Gtac è un enorme caleidoscopio di generali, svastiche, istruzioni sulla diserzione, mostri dalle bocche spalancate e biomorfismi; è un inferno, lo stesso tragico incubo a occhi aperti che non finisce mai.

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