Il viaggio sonoro di Joachim Cooder
Note sparse Alle radici del country ma non solo nel suo nuovo album «Over that road I’m bound»
Note sparse Alle radici del country ma non solo nel suo nuovo album «Over that road I’m bound»
Questa è una storia di padri e figli, tramandata da padri e figli nel tempo, di storie ascoltate e raccontate, trasformate, attorno al fuoco, battendo il piede per dare un ritmo al racconto, nei secoli dei secoli. Comincia prima degli anni Venti del ‘900, prima cioè che l’industria discografica americana metta le mani sulle storielle e sulle filastrocche che i musicisti rurali scesi dagli Appalachi portavano nelle città. Di solito arrivavano con un circo, o con un medicine show e intrattenevano il pubblico con canzonette, filastrocche, barzellette o ballate d’amore. Tra una canzone e l’altra il «dottore» cercava di piazzare qualche pomata, sapone o unguenti miracolosi. I cantastorie raramente venivano pagati: gli davano da mangiare, da bere del gran moonshine, il whiskey illegale, e poi ripartivano per un’altra città aggiungendo storie a storie, come in un bottino di guerra senza morti.
Uno dei più famosi dell’epoca era un omino rubicondo coi denti d’oro, sempre elegante, un cappello di feltro in testa, e diceva di essere il più grande suonatore di banjo del mondo (ma non era vero, era Earl Scruggs quello). Nato nel 1870 dalle parti di Nashville, Tennessee, Uncle Dave Macon, detto anche «The Dixie Dewdrop», era un raccoglitore di storie che rielaborava per far ridere, piangere, per intrattenere. Amatissimo dal pubblico entra nel 1926 nel «Grand Ole Opry», il mitico country-show radiofonico settimanale, e rimane ospite fisso ininterrottamente fino alla sua morte nel 1952.
QUASI cento anni dopo, nella sponda opposta, a Los Angeles, c’è un altro musicista, raffinatissimo raccoglitore di storie e soprattutto di suoni, che ha girato il mondo, dall’America, all’Europa, all’Africa (isole comprese). Si chiama Ry Cooder, e anche quei pochi che non lo conoscono lo hanno di sicuro visto sfrecciare a bordo di un sidecar Ural del 1973 per le vie di Cuba con suo figlio in Buena Vista Social Club. Suo figlio Joachim, batterista in erba, in quel film ha una ventina d’anni, e regge una telecamerina con cui riprende suo padre. Addirittura ha sedici anni quando compare nella copertina del capolavoro Talking Timbuktu del profeta del blues del Mali Ali Farka Touré: sono in tre, in quella foto bellissima, a piedi scalzi: Ali, Ry, e, per terra, il ragazzino con un tamburo tra le mani, che comincia già da allora a raccogliere suoni e storie, avendo visto passare per casa gli amici del padre, gente del calibro di Touré, Dr John, John Lee Hooker, per citarne alcuni.
DICONO che le colpe dei padri, molto spesso, ricadono sui figli, ma per Joachim vivere accanto a questo gigante, dev’essere stata una benedizione. Joachim racconta che fu proprio il musicista del Mali, che registrava con suo padre, a suggerirgli di provare la mbira, una specie di piccolo pianoforte a lamelle di ferro che si suona coi pollici, strumento tipico dell’Africa primordiale, che produce una ripetizione di suoni modali ipnotici. Il giovane racconta anche di aver sentito il padre suonare spesso una vecchia melodia (Morning Blues) al banjo quando andava a trovarlo con la figlioletta, e che una volta tornato a casa, aveva cominciato a divertirsi risuonandola, cambiando un po’ le parole con la bimba, giocandoci, aggiungendo storie. Esattamente come l’autore di quella canzone, il vecchio Zio Dave. La figlia, che all’epoca aveva tre anni, voleva ascoltare sempre la stessa traccia, come fanno tutti i bimbi, e durante la colazione i due danno forma a questo family project, come lo definisce Cooder, che intanto ha cominciato a indossare anche lui un cappello, come il padre, e lo «zio».
«AVEVA un che di ultraterreno, suonato in quel mondo», dice lui, «ma il direttore artistico del progetto era mia figlia». Risuonare il repertorio di quelle canzonette nate col banjo con uno strumento totalmente differente, per di più usato in modo quasi percussivo, sulla carta è pura follia, ma Joachim ci riesce in modo sublime. Quello strambo strumento lo porta in grembo da anni, la Array mbira, in studio e in tour con il padre, e l’ha usato nel 2018 per registrare la manciata di ninnenanne, del disco Fuchsia Machu Picchu, a cui hanno partecipato il padre Ry e la moglie Juliette Commagere.
Over that road I’m bound, che esce per la prestigiosa Nonesuch Records, è un meraviglioso viaggio sonoro ipnotico alle radici del country, ma che arriva fino al battito primordiale della musica africana, con inserti elettroacustici raffinatissimi e un cantato – di Joachim stesso – sulfureo eppure soave (e, in un brano, la chitarra di Vieux Farka Touré, il figlio di Ali). Nuovo Alan Lomax contemporaneo, Joachim Cooder raccoglie i suoni del suo mondo e ce li restituisce come un medicine show per lo spirito, ipnosi sonora calda e avvolgente, che non ha bisogno di etichette per essere descritta. Basta aprire il proprio cuore, bere un sorso della pozione magica che lui ha preparato, e lasciarsi andare al suono di un malandato furgoncino cosmico di gelati – la definizione è sua – che spara musica a manetta direttamente alla testa. E al cuore, ovviamente.
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