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Il vaticinio di Bernstein secondo Pappano

Il vaticinio di Bernstein secondo PappanoAntonio Pappano

Eventi Inaugurare una stagione come quella di Santa Cecilia con un capolavoro del musical è un operazione che solo un direttore illuminato poteva mettere in atto

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 16 ottobre 2018

Inaugurare una stagione come quella di Santa Cecilia con un capolavoro del musical è un operazione che solo un direttore illuminato come Antonio Pappano poteva mettere in atto. Perché Bernstein? Perché a cento anni dalla sua nascita,  il poliedrico e intuitivo musicista, è ancora il presente e il futuro, l’unico della sua generazione ad immaginare cosa sarebbe successo se il ruolo del musicista non fosse stato quello del comunicatore. Rara intuizione quindi che è stata colta a pieno da Antonio Pappano che alla stregua di Bernstein sa di essere ottimo musicista e comunicatore. Forse è per questo che i romani lo amano tanto. E sarà per questo che ha potuto permettersi di aprire la stagione del Santa Cecilia con il musical per antonomasia di  Bernstein,  West Side Story, scritto nel 1956 su testi di Arthur Laurents e di Stephen Sondheim da una illuminata idea di Jerome Robbins.

Pappano importa quella tradizione poco italiana di puntare ad opere in forma non scenica, da concerto appunto, così come Bernstein aveva fatto proprio a Santa Cecilia con una spettacolare Boheme, e la sua interpretazione  risulta vivissima e energica. Già dall’introduzione di memoria strawinskyana dell’opera si comprende come il tutto sarà condotto in stregua al ritmo e a quel senso di forte realtà che Bernstein voleva imprimere, perché è proprio il ricondurre ad una realtà misera e violenta che pone quest’opera come uno dei rari momenti di intervento sociale della musica. Infatti Bernstein comprende come i contrasti fra fazioni sociali non fossero altro che quello che l’America degli anni ’50 viveva a livello generazionale.

Ed è quindi tutta una scrittura ritmica, fortemente ritmica. Lo sanno bene gli orchestrali di Santa Cecilia, vestiti questa volta senza la mise accademica per far posto al colore che rappresenta la cifra visiva dell’azione scenica, marcata proprio dal vestire comune e dal rispondere alle esigenze di giovani newyorkesi muovendosi in jeans e camicia.  Perfetto il coro – ben diretto da Ciro Visco – che ha rappresentato lo stato sociale della narrazione, così come Alek Shrader è Tony molto convinto e convincente, sospeso fra il romanticismo e il realismo violento. Appropriate le interpretazioni di Mark Stone (Riff), Andrea D’Amelio (Bernardo), Andrea Giovannini (Action), come per Tia Architto (Anita), Aigul Akhmetshina ( Rosalia), Francesca Calò (Consuelo), Marta Vulpi ( Francisca).  Pappano si conferma come colui che più di tutti ha compreso il vaticinio di Leonard Bernstein in un tempo che spesso dimentica il passato.

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