Il valore imperfetto delle singole cose
Intervista Nell'atelier (una vecchia fabbrica di fiammiferi) dell'artista cubano Jorge Yunior Gutiérrez, che tutti conoscono semplicemente come Salomón
Intervista Nell'atelier (una vecchia fabbrica di fiammiferi) dell'artista cubano Jorge Yunior Gutiérrez, che tutti conoscono semplicemente come Salomón
Nella centrale Calle Medio di Matanzas, non si può non entrare nell’atelier di Jorge Yunior Gutiérrez, che tutti conoscono semplicemente come Salomón. Siamo in una vecchia fabbrica di fiammiferi, una delle tante abbandonate a Cuba, coi suoi ampi spazi lasciati dal disuso in carne viva. I lavori di Salomón, spesso di grandi dimensioni, coprono le pareti e il pavimento, mentre lui si muove con frenesia che poi è la sua urgenza di creare, evocare, narrare.
CLASSE 1987, originario di Holguin, una laurea in arti plastiche, racconta di aver fatto il suo debutto in una galleria d’arte quando era solo tredicenne. Lunghi anni a disegnare, dipingere, scolpire: «Guardando indietro mi sembra di essere stato un alchimista, ho prodotto una quantità di opere e sperimentato tanti linguaggi». Al suo attivo ha centinaia di esposizioni, personali e collettive. I suoi lavori sono stati selezionati per due volte alla Biennale d’arte dell’Avana; ha esposto alla Galleria Leyendeker di Tenerife e ad Arco Madrid, alla Red Rhino Room in Australia e alla Espace 7 di Parigi. In Italia, ha fatto capolino alla Fiera internazionale di Rho e a Setup ArtFair di Bologna. Proprio nel nostro paese, ci racconta, «ho potuto passare alcuni mesi in residenza. Ed è qui che ho incontrato l’arte povera e ho scoperto Jannis Kounellis. Solo così ho ridato un senso alle cose su cui stavo lavorando, al mio percorso di ’ricerca per necessità’. Da ragazzo, ho vissuto il Periodo Especial e mancava tutto, allora usavo terra cruda, vecchi metalli, ferraglia, sacchi di iuta. Siamo ri-precipitati in un periodo especial che sembra non finire mai, ora è come essere tornato all’inizio ma con una nuova consapevolezza». E una nuova inquietudine.
È nata così ad esempio l’installazione Los ausentes, decine di cilindri ossidati, allineati uno vicino all’altro: sono le bombole usate per le prove di sicurezza, «misurano la tensione e la quantità di gas da utilizzare per riempierle: se il tappo è ben chiuso e sicuro, si squarciano in un fianco». A quel punto, si buttano via. Cos’è se non la metafora di questo paese? «Cosa sono se non le ferite che ogni cubano sotto pressione si porta addosso? Cosa sono se non il vuoto lasciato dalle persone che emigrano come una emorragia?». L’installazione, dalla poetica potente, riempie una sala del suo atelier, là dove il patio si apre al cielo nervoso dei Caraibi e la vegetazione mette radici nel cemento delle pareti.
QUESTA È UNA DELLE OPERE nate da una residenza d’arte di sei mesi nella Conformat a Matanzas, una impresa di metalli e bombole di gas, l’antica fabrica de cubos di fine anni ‘30. «È stata un’esperienza davvero intensa. All’inizio gli operai mi osservavano chiedendosi cosa facesse uno come me là dentro, avranno pensato che fossi un pazzo. Per me è stato anche un modo per mostrare il valore del loro lavoro. Quello che ho creato in quella fabbrica è un omaggio alla fatica, alla forza, al dolore, alla poesia di quegli operai».
Un’altra installazione copre il pavimento dell’atelier. È una serie di guanti da operaio disposti a raggiera: un tappeto di mani aperte, un coro muto che sembra ruotare verso un altrove. Salomón parla del «valore delle singole cose, dei materiali, delle imperfezioni, delle tante storie che ogni pezzo porta addosso.
Gli scarti sono così, il mio sforzo è di tirarne fuori la voce, la magia, ridargli nuova vita».
A Salomón non interessa fare arte politica in senso stretto: «Faccio un lavoro concettuale. Lascio che la visione interroghi chi osserva. Se riesco a turbare e a emozionare capisco che ho fatto un buon lavoro. Credo nella forza dell’arte che trasforma dentro e a volte sana». E aggiunge: «Non ho nessuna intenzione di affaticare uno spettatore con un discorso politico, né voglio essere incasellato nella retorica».
EPPURE, QUALUNQUE ARTISTA cubano sa che c’è un perimetro, che segna il dentro e il fuori di ciò che è permesso esprimere: «Sì, è un perimetro che conosco, so cos’è la censura. Ma è un perimetro che rifiuto dentro di me, e per questo non accetto prima di tutto la autocensura. Mi lascio guidare da una regola semplice: essere sincero con me stesso». E quel perimetro vale anche per le leggi del mercato dell’arte, per cui «tanti artisti cubani realizzano solo lavori che piacciono a collezionisti e galleristi europei e nordamericani e così tutto si appiattisce, si livella o finisce nel folklorico: si ha successo, certo, e si vende, ma si vende pure la dignità al mercato. E il turismo qui lo dimostra, rastrella via tutto». Ripete più di una volta: «Non faccio arte compiacente».
Prima di uscire, in un altro lato dell’atelier-fabbrica, ci si imbatte in grandi pannelli neri: sono tavole-lavagne che riproducono i prezzi del cibo nei diversi luoghi dove si può andare comprare, dal negozietto statale a quello privato fino al bar di un museo. «È un ritratto del paese, quello appeso ai prezzi sempre più inaccessibili, al cibo che manca, agli occhi dei cubani che ogni giorno si appoggiano su cartelli come questi, facendo i conti con i pochi soldi che hanno. È la tristezza, la desolazione, è la nostra forza».
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