Cultura

Il trauma prevedibile

Il trauma prevedibileUmberto Boccioni, «Carica dei lancieri», 1915

Novecento «I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra» di Christopher Clark, edito da Laterza. Un vero manifesto di quella letteratura storica che sa stare «al punto», identificando la natura dei problemi

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 23 gennaio 2014

Approssimandosi il quinquennio delle celebrazioni del centenario dei fatti, e delle violenze inaudite, che costellarono gli anni della Prima guerra mondiale, torna di assoluta utilità la lettura del corposo volume di Christopher Clark sulle origini, e in subordine le cause, che la scatenarono. L’autore è docente di storia moderna all’Università di Cambridge nonché al Saint Catharine’s College. Nel suo libro su I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra (Laterza, pp.716, euro 35) si adopera in una minuziosa ricostruzione del quadro d’epoca, identificando i protagonisti, gli scenari (a partire dai Balcani) ma anche e soprattutto i percorsi decisionali che approdarono ad un’unica soluzione bellica, nelle intenzione dei più vissuta come gestibile all’interno di ordini di grandezza e percorsi prevedibili ma destinata, nel volgere di poco tempo a sconvolgere tutti le previsioni e i piani anzitempo fatti.

Nell’interesse del lettore, prima di approfondire il giudizio su di un testo che si segnala per il suo indiscutibile rigore e per un respiro culturale non comune, è bene dire come esso è strutturato. La prima parte si concentra sui due principali antagonisti degli esordi, la Serbia e l’Impero austro-ungherese. Di due soggetti politici così asimmetrici ne è ricostruita la traiettoria storica più recente, indagandone i rapporti conflittuali fino all’attentato di Sarajevo. In tale modo Clark riesce a restituirci la complessità dei fattori che fecero implodere nazionalismi contrapposti, a fronte di irrisolte questioni sociali che proprio attraverso il vettore delle rivendicazioni territoriali cercavano di trovare uno sbocco altrimenti irraggiungibile.

I legami competitivi, poi conflittuali, tra Vienna e Belgrado indicavano, come una sorta di più ampia cartina di tornasole, l’insostenibilità degli equilibri raggiunti a Vienna nel 1815 e, per quasi un secolo, malgrado i risorgimenti nazionali, mantenuti in piedi dal consesso europeo degli Stati. All’interno di questa rete di identità e di processi in atto l’autore si interroga, nella seconda parte del volume, su alcune questioni capitali.

Almeno quattro meritano di essere richiamate. La prima rinvia al come si pervenne alla polarizzazione e alla radicalizzazione in blocchi contrapposti dell’Europa continentale. La seconda rimanda al ruolo della politica estera degli Stati europei in un’età nella quale sempre meno essa poteva ritenersi disgiungibile dalle domande e dai bisogni che l’affermarsi di società di massa imponeva nelle agende politiche nazionali. Il terzo quesito ruota intorno alla centralità dei Balcani nell’accelerazione della crisi e nel coinvolgimento di una pluralità di soggetti altrimenti estranei. La dialettica tra epicentro materiale del conflitto e perifericità della sua collocazione geografica induce a riflettere con attenzione su fatti quali la diffusione virale delle tensioni, la loro concatenazione, le dinamiche di sistema all’interno di un’«Europa-mondo», ossia di un’area continentale che già allora era un circuito ad elevato livello di integrazione e globalizzazione.

L’ultima domanda si sofferma quindi sui meccanismi fatali del sistema internazionale che si incepparono o, non necessariamente in maniera alternativa, si adoperarono affinché una crisi regionale divenisse una crisi globale, lasciando così che i fattori problematici preesistenti si traducessero in una costellazione di criticità irrisolvibili. Posti i quesiti e tentate le risposte il volume affronta infine, in una terza parte, una sorta di analisi di caso, la crisi del luglio 1914, in tutti i suoi possibili angoli di lettura e interpretazione.

Detto questo va sottolineato che Clark consegna al lettore un’opera storiograficamente solida, un vero e proprio manifesto di quella letteratura storica che sa stare «al punto», identificando la natura dei problemi e, nel medesimo tempo, «al passo», offrendo il senso della concatenazione degli eventi. In quest’ottica, tipica di una parte della storiografia di scuola anglosassone, la tradizionale tentazione di fare della mera storia politica, ossia delle élite, si contempera con l’esigenza di riannodarla ad una pluralità di elementi di ordine culturale, sociale ed economico.

Clark lavora ripetutamente sul nesso strategico tra contingenza delle condotte e fattori strutturali, di lungo periodo. Il tutto sotto il segno della complessità e, in parte, dell’imprevedibilità degli esiti delle scelte dei singoli soggetti in campo, non solo gli Stati nazionali ma anche i movimenti sociali e nazionalisti.

La guerra del 1914-1918 è descritta come «una tragedia multipolare e autenticamente interattiva». Gli è estraneo un approccio che voglia identificare a priori l’esistenza di meccanismi causali, quasi che la storia fosse un percorso teleologico, definibile secondo parametri di prevedibilità, così come invece la diffusa idea della prevenzione del rischio sistemico ha introdotto in parte della culture politiche del Novecento. Ragion per cui si adopera nella identificazione del «come» piuttosto che nella denuncia del «perché», atteggiamento, quest’ultimo, che altrimenti ridurrebbe il lavoro dello storico a quello di un confessore che somministra infine le pene per le colpe denunciate.

Non di meno la Grande guerra gli pare essere non tanto la risultante di un deterioramento degli equilibri di lungo periodo, fatto che pure si era determinato ma che non necessariamente doveva sboccare in un conflitto di tali dimensioni, quanto l’esito del sommarsi e del rinforzarsi reciprocamente, nei loro devastanti effetti, di una pluralità di tensioni e di «traumi» minori, il cui sovraccarico fece poi crollare il sistema delle relazioni internazionali istituito, alimentato e mantenuto nel secolo precedente. I sonnambuli, citati nel titolo, e che sembrano richiamare l’opera omonima di Hermann Broch, dove si narra dello sfilacciamento del tessuto valoriale borghese, sono i centri di potere e decisionali di un’Europa di imperi che, nelle gerarchie dell’inizio del secolo scorso, sembrano essere ricalcate dall’Unione continentale di oggi.

La superficialità, la leggerezza, la gratuita ma anche il velleitarismo e l’illusorietà dei percorsi d’azione dei gruppi decisionali furono un fattore decisivo nel veloce incancrenirsi di un conflitto originariamente regionale così come nel suo diffondersi ovunque come un lampo. Tra inerzialità e supponenza, inconsapevolezza e predatorietà, nazionalismo irresponsabile e allarmismi a vuoto, l’Europa di allora precipitò, in un lasso di tempo brevissimo, in quella che sarebbe stata la prima delle due più peggiori crisi vissute da che aveva preso a considerarsi come entità continentale unitaria.

Le dense pagine di Clark risultano così essere estremamente attuali, rinviando ad ordini di problemi non solo irrisolti, e quindi perduranti a tutt’oggi, ma alla persistente fallacia di un sistema di relazioni internazionali dove alla finzione di un consenso di superficie si accompagna la realtà di scollamenti progressivi e, forse, irrisolvibili. Non di certo con gli strumenti a nostra disposizione, tra sonnambulismo, defezionismo e antagonismo prevaricatorio.

 

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