Planisfero, Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, clm 210, 818 ca., f. 113v
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Alias Domenica

Il Toro non è Giove ma Cristo, vitello grasso votato al sacrificio

Costellazioni medievali Anna Santoni studia la fortuna di Arato nei codici miniati di età carolingia e la rilettura dello zodiaco in chiave cristiana: Le costellazioni e i loro miti al tempo di Carlo Magno, Edizioni ETS
Pubblicato 13 minuti faEdizione del 29 settembre 2024

Una notte chiara intorno all’anno 830, alla finestra del campanile della cattedrale di Verona, poi distrutta dal terremoto del 1117, un chierico sta osservando il cielo con un telescopio senza lenti e, dopo aver individuato l’Orsa minore, orienta la lancetta grande di una specie di disco orario sulla stella polare e la lancetta piccola verso una stella laterale che chiama computatrix: sulla sezione del disco dove batte l’altra punta della lancetta quest’uomo vede l’indicazione dell’ora. Probabilmente il meccanismo, che corrisponde allo strumento chiamato «notturlabio», doveva aiutare a gestire la successione notturna delle funzioni religiose e in generale a conoscere l’ora fra tramonto e alba, compatibilmente con la stagione e il clima. Ma nelle storie della misurazione del tempo, nei siti internet e su Wikipedia le prime attestazioni iconografiche del notturlabio sono datate al XII secolo e la sua diffusione europea al XV, e in molti luoghi si trova l’invenzione ricondotta all’epoca delle prime traduzioni latine dei trattati arabi. Chi ci ha informato dunque dell’esistenza del notturlabio in pieno Occidente già nell’830? Una poesia in versi ritmici in cui il chierico-astronomo spiega il funzionamento dello strumento chiamato horologium nocturnum e poi, appunto, notturlabio: come diceva Adorno, «le forme dell’arte raccontano la storia degli uomini con più esattezza dei documenti».

In questo caso la poesia, e soprattutto le illustrazioni che la accompagnano nella tradizione manoscritta, ci consente di retrodatare di quasi quattro secoli la conoscenza e l’uso di una invenzione tecnica che ha avuto la sua importanza ed è ancora in uso. L’autore del testo sembra sia l’arcidiacono Pacifico di Verona, personaggio di intraprendenza frenetica scomparso nell’844, cui la tradizione attribuisce la fondazione o ristrutturazione delle sette chiese più belle di Verona, l’esecuzione di decorazioni e intagli artistici, la trascrizione di 218 manoscritti dello scriptorium capitolare, la redazione di commenti biblici e infinite manifestazioni di una prodigiosa attività culturale e versatile curiosità tecnica. Sui documenti che lo riguardano, a partire da due epigrafi ancora leggibili nella cattedrale di Verona, si è scatenata una vivace controversia interpretativa, ma è evidente che la «leggenda», fondata o meno, esprime quello che una parte significativa della comunità veronese riconosceva come dato storico in età medievale. Fra le conquiste elencate nell’aretalogia epigrafica di Pacifico troviamo proprio un horologium nocturnum che «nessuno aveva mai visto» e un horologioque carmen spera, una poesia che descrive la «sfera» dello Zodiaco.

Questa è una delle tante novità che saranno presentate al convegno di archeoastronomia “Certas ipse notas caeli de tegmine sumens”. Prendendo tu stesso informazioni sicure dalla volta del cielo (Cicero, Aratea 346) che si tiene alla Scuola Normale di Pisa il 4 e 5 ottobre per fare il punto di ricerche e scoperte sull’astronomia antica e gli spazi culturali a essa contigui: dalla ricezione della scienza antica a Bisanzio alle collezioni vaticane di manoscritti astronomici, dal Trattato sul moto del sole di Ibrahim Ibn Sinan ai rilievi nella Sagrestia Vecchia di San Lorenzo a Firenze, dai quadranti pisani al Tempietto di Bramante, dall’osservazione del cielo in Amerigo Vespucci all’astrologia dell’antico Egitto: un caleidoscopio di luci siderali che continuano a irradiarsi anche dal centro antico di una stella apparentemente morta, il progetto Certissima signa. Promosso da Anna Santoni alla Normale fino a qualche anno fa, aveva raccolto, riprodotto e analizzato testi antichi e manoscritti medievali sulle costellazioni in un affascinante e popolatissimo sito internet, ora dismesso perché le istituzioni di conservazione spesso non percepiscono i progetti digitali come equivalenti a una collezione di libri ma come un divertimento temporaneo dei ricercatori, finché sono in servizio.

La Santoni ha concretizzato parte della sua esperienza pionieristica nel volume Le costellazioni e i loro miti al tempo di Carlo Magno Il contributo della tradizione aratea alla conoscenza del cielo in età carolingia (Edizioni ETS, con oltre 40 pagine di illustrazioni a colori, pp. 198, € 25,00). L’introduzione guida il lettore nei meandri della tradizione aratea, cioè dell’opera di astronomia in versi legata ad Arato di Soli (III sec. a.C.), tramandata in alcuni dei codici miniati più belli della storia. La Santoni ne studia la ricezione e rielaborazione da parte della cultura cristiana occidentale, pubblicando e traducendo per la prima volta alcuni trattati di età carolingia, fra i quali spicca il De astronomia more christiano, di autore ignoto (identificato da alcuni col teologo Pascasio Radberto di Corbie, 800-865 ca.), che risemantizza lo zodiaco come aveva cominciato a fare Gregorio di Tours nel De cursibus stellarum, dove cambiava nome ad alcune costellazioni. L’anonimo invece rispetta la nomenclatura classica, che dichiara irreversibile perché ormai invalsa e funzionale, ma ne introduce spiegazioni innovative, ingenue ma compatibili con la storia sacra e supportate da citazioni bibliche: l’Ariete è Cristo, concepito in quel segno, il Toro sono i cristiani tenaci, i Gemelli cristiani fraterni, il Leone i cristiani coraggiosi, la Vergine i cristiani puri e così via, proponendo un modello da estendere alle altre costellazioni, come avvenne in parte nei testi descritti da Wolfgang Hübner nel suo celebre Zodiacus christianus.

La stessa strada è percorsa dal nostro Pacifico nella seconda delle sue poesie in versificazione ritmica, Spera coeli, che ispirandosi a un sermone di Zeno di Verona ripercorre i 12 segni con letture diverse e più sofisticate di quelle dell’Anonimo: il Toro non è quello nella cui figura Giove trasportò Europa, ma il simbolo di Cristo, che il Vangelo di Luca 15, 23 definisce vitello fatto ingrassare per il sacrificio, con significato analogo a quello di agnello (corrispondente all’Ariete, con cui formalmente co-mincia lo Zodiaco). Questo toro ci esorta con zelo pietoso ad arare il terreno dei vizi e seminarvi i suoi precetti. I Gemelli sono i due Testamenti biblici, il Cancro rappresenta i vizi da evitare, il Leone è Cristo addormentato nella morte e risvegliato per la vittoria, la Vergine è il sesto segno dello zodiaco come Cristo nasce dalla Vergine nella sesta età del mondo, portando la Bilancia della giustizia: se a lui ci si accosta con cuore buono non avremo paura del veleno dello Scorpione, né delle frecce del demoniaco Sagittario, e l’orrido (?) Capricorno farà impazzire altri, rendendoli omicidi e adulteri, ma non i cristiani. A chiunque si convertirà, il candido Acquario tergerà dalla fronte le colpe, mentre i due Pesci rappresentano i popoli ebraico e cristiano chiamati alla salvezza.

La rassegna circolare, divenuta narrazione per simboli, si chiude con un invito a non credere che in cielo ci siano esseri mortali, a non adorare segni vuoti di animali gravati dal peso della carne e a capire che in alto ci sono invece il mediatore fra Dio e gli uomini e le anime dei beati. Il rovesciamento del segno e dunque del simbolo di una scansione del tempo si estende a reinterpretazione globale sul piano del senso allegorico, del carattere, del destino che ci comunica.

Questo disordinato sperimentalismo astrologico si struttura nell’alto medioevo in una disciplina composita che prende il nome di computus, una delle grandi parole della civiltà occidentale, da cui derivano «conto» e «computer» ma anche «racconto»: qualsiasi metodo che metta in ordine i fenomeni. La mise in circolazione Dionigi il Piccolo, il collaboratore di Cassiodoro (V-VI sec.) che fissò, con sei anni di errore, il momento della nascita di Cristo, creando così la datazione che usiamo tuttora. Da allora per «computo» si intese la serie di calcoli, basati sullo studio del corso solare e lunare e dei loro incroci, necessari a stabilire la data dalla quale dipende tutto il calendario cristiano, civile e religioso: quella di Pasqua, che essendo festa mobile (la domenica dopo la prima luna piena di primavera), può cadere ogni anno in un giorno diverso.

Questo aggregato di discipline divenne materia obbligatoria nella scuola pubblica fondata da Carlo Magno e generò fino al Cinquecento inoltrato una serie infinita di trattati corredati da tabelle numeriche ma anche da bellissime illustrazioni e anche qualche centinaio di poesie che si imparavano a memoria nelle scuole per ricordare le basi del calcolo. Qualche volta venivano perfino messe in musica: come capitò alle 70 strofe di Anni Domini, recentemente edite da Chiara Savini, Irene Volpi e Sam Barrett nel Corpus Rhythmorum Musicum della SISMEL e online nel sito www.corimu.unisi.it. Il canto delle stelle si può anche ascoltare.

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