Il Thésée dei Talens Lyriques
2 marzo 1647, nel palazzo del cardinale Richelieu, divenuto Palais Royal, Mazzarino fa rappresentare l’Orfeo di Luigi Rossi, libretto di Francesco Buti. Fu il tentativo d’impiantare anche in Francia un nuovo tipo di teatro, il melodramma, che in Italia riscuoteva immenso successo. Ma i francesi, nonostante gradissero musica e cantanti, restarono perplessi.
In Francia, a differenza dell’Italia, c’era una ormai consolidata tradizione teatrale, tragica e comica: nel 1636 era andato in scena il Cid di Corneille, che aveva suscitato un’accesa polemica sul teatro moderno: il teatro è parola e azione. Il prevalere della musica sulla drammaturgia non incontrava il gusto del pubblico. Tra l’altro il melodizzare italiano non si adatta alla prosodia della lingua francese.
Perciò quando, dal 1669, Lully e Molière proposero un teatro musicale francese, con una prosodia musicale che si adattava alla lingua, il destino del teatro musicale francese fu segnato. In qualche modo era un teatro che continuava, ma nella lingua francese, l’intuizione drammatica di Monteverdi, quella di una recitazione musicale, che in Italia era stata ormai sopraffatta dal gusto per il canto.
Era nato così un altro genere di teatro musicale, che avrebbe prodotto grandi capolavori, ma che non continuava l’idea di una recitazione musicale, cui i francesi non vollero rinunciare.
Lully inventò un tipo di declamazione musicale che nasceva dalla prosodia della lingua, destinato a perpetuarsi quasi fin dentro l’Ottocento. Ne fu affascinato perfino Verdi, per il respiro ampio di melodie aperte che rinviano la conclusione, o la attenuano. In fondo Debussy nasce non a caso musicista francese.
Una splendida registrazione del Thésée, tragédie mise en musique par M. de Lully, diretta da Christophe Rousset, alla testa dei Talens Lyriques, ci offre l’occasione per riflettere su questa differenza, che riguarda le forme, non certo il valore estetico. Il testo è di Philippe Quinault, fedele collaboratore di Lully.
La «tragedia in musica» andò in scena nel 1675. A differenza dell’italiana, la lingua francese non ama separare nettamente le parole. La frase, e dunque il verso, è detta come se fosse un’unica parola. Questo invita il musicista a scrivere melodie ampie che si distendono per tutto l’arco della frase, e che non si allontano dalla nuda dizione delle parole. È come se il verso – l’alessandrino della tragedia, qui spesso spezzato in versi più brevi – già contenesse la propria intonazione.
Si ascolti la frase in cui Medea, nella prima scena del secondo atto, si lamenta del proprio fascino: «Ah! Je n’en ay que trop pour forcer à me craindre / Et trop peu pour me faire aimer». E più avanti: «Le destin de Médée est d’être criminelle / Mais son cœur était fait pour la vertu». Abbandonata da Giasone, ha già ucciso il fratello e due figli. Ora ama Teseo. Che invece ama Egle, e alla fine la sposerà. Medea è lasciata alla sua solitudine.
L’azione deve però anche sorprendere, apparire sontuosa, imprevedibile. Ecco allora gli effetti delle magie di Medea, i mostri che appaiono, i palazzi che bruciano. Il fantastico e l’umano a dipingere un mondo in cui è possibile provare piacere per il dolore degli altri. L’eroe vincitore è bello, anzi «glorioso».
Ma la guerra è una «barbarie». In queste contraddizioni la musica passa dall’estenuazione della tenerezza al fragore delle marce militari. L’orchestra è ricca di timbri. Le voci si tengono nel tono medio del parlato. La recitazione musicale compie il miracolo di apparire pura recitazione. Rousset controlla con maestria tutti questi effetti.
A seguirlo un cast straordinariamente omogeneo: Mathias Vidal, Teseo; Karine Deshayes, Medea; Deborah Cachet, Egle; Philippe Estèpe, Egeo, e tutti gli altri, perfetti nella rappresentazione di una storia che, sotto le vesti del mito, indaga i lati più oscuri delle passioni umane. Roland Barthes scrisse che la tragedia di Racine porta sulla scena esseri selvaggi, primitivi, raccontati con la grazia della Ragione. Accade lo stesso nel teatro di Lully.
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