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Il Tevere dell’acquafortista melanconico

Il Tevere dell’acquafortista melanconicoPietro Testa, "Autoritratto", 1649 circa, acquaforte

Nati sotto Saturno / Seicento a Roma: Pietro Testa Suicida, il Lucchesino fu dissociato fra aspirazioni classicistiche e acuta sensibilità ‘romantica’. Orgoglioso provinciale, non sapeva proprio giostrarsi nella difficile Roma dei Barberini e poi dei Pamphilj. Disegnatore eccelso, ebbe per modello, disperatamente, l’arte dell’amico Poussin

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 8 agosto 2021
Pietro Testa, “Enea sulla riva del fiume Stige”, part.,1648-’50, coll. privata

 

Appena entrati nella basilica romana di San Martino ai Monti, subito a mano manca una grande tela centinata con La visione di Sant’Angelo Carmelitano, composta in verticale, su tre livelli, ci proietta in un mondo oscuro e doloroso: l’eremita medioevale, sprofondato in basso «nell’orrore di una selva», dove lo incita un gagliardo angelo color polvere, si volge alla figura soccorrevole del Cristo nel piano medio, mentre su in alto, da uno squarcio tra le fronde, caduto il «sipario» di «un panno azurro scuro con stelle d’oro che acenna il firmamento», le silhouettes delle vivandiere divine (controluce crepuscolare) guardano verso l’interno, secondo un modulo genialissimo caro all’autore del dipinto, Pietro Testa.
È appena superata la metà degli anni quaranta del Seicento: un momento difficile per Pietro, che alla fine di febbraio del 1650 morirà annegato nel Tevere a 38 anni; il corpo, vestito «col mantello addosso», riemerse il 2 marzo, mercoledì delle Ceneri, sulla riva antistante la chiesa di San Biagio della Pagnotta (oggi degli Armeni) in Strada Giulia. Per quanto i biografi antichi – Sandrart, Passeri, Baldinucci – si siano sforzati di accreditare moralisticamente l’ipotesi dell’infortunio, è quasi certo che di suicidio si trattò. Un esito perfettamente coerente con la natura tra melanconica, orgogliosa e irascibile di un artista che, nella difficile Roma barberiniana, non ebbe le accortezze sociali necessarie e, giusta la lettura 1954 di Alessandro Marabottini, compresse il suo acuto sentire ‘romantico’ entro gli obblighi della normativa classicistica.
Dalle fonti, il primo segnale di squilibrio è nella litigiosità verso Pietro da Cortona, alla cui bottega era passato dopo la partenza per Napoli, nel 1631, di Domenichino suo iniziale maestro. Nato il 18 giugno 1612, civis lucensis da cui lo pseudonimo di Lucchesino, Testa, stanziato a Roma almeno dal 1628, era un giovane sui vent’anni, provinciale figlio di «rivendugliolo» e inesperto delle cose del mondo, quando si fece cacciare dall’astro nascente della pittura barocca, appunto il Cortona, che proprio in quel torno di tempo saldava inossidabilmente il suo rapporto con la corte pontificia di Urbano VIII. Testa lo vediamo nelle parole di Baldinucci: grande di corpo, nobile d’aspetto, compiaciuto di sé. Non riesce a mascherare la sua insofferenza, inadatto alla «dissimulazione onesta» che è sigillo del secolo: «Egli non seppe essere di quegli aveduti, che sanno portare nelle labbia il riso, tenendo sotto il mantello il rasoio…» (Passeri).
Pur nei contrasti, assorbe dal Cortona, e a ruota da Poussin, quel gusto del colorire che ne fa – accanto ai due maggiori, al Grechetto, all’amico intimo Pier Francesco Mola – uno dei rappresentanti della corrente neoveneta. Non il più dotato: sin dai primi biografi si è sempre insistito, forse un po’ troppo, sui limiti del Testa pittore, sulla sua tavolozza tra fredda e arida, a favore del disegnatore e dell’acquafortista. Se è nella grafica che egli si espresse al meglio, soprattutto nella stagione di mezzo, i dipinti (pochi, perlopiù da stanza) andrebbero riconsiderati, con la loro evocazione di un’antichità lunare, dove gli esseri si prestano meccanicamente al diktat del Fato. I tramonti tempestosi, le luci vaganti, le fisionomie risentite con quel nero che scava le orbite, l’originalità cervellotica dei soggetti, tutto concorre a destabilizzare la ponderazione compositiva, di stampo poussiniano, cui pure l’artista anela con trepidazione teorica. Una sigla di alta perizia, lo sbalzo metallico delle vesti. Il tutto Testa, curato nel 2014 da Giulia Fusconi (P. T. e la nemica fortuna, Palombi), cercava finalmente di reintegrare nella lettura dell’artista l’opera pittorica, lasciata vagante – da segnalare i sottili interventi di Stefan Albl.
Figura-chiave nella vita di Testa fu il cavalier Cassiano dal Pozzo, che dal suo palazzo di via dei Chiavari, dietro Sant’Andrea della Valle, dettava i principi intellettuali di un umanesimo vòtato alla riscoperta archeologica dell’Antico. Avvedutosi del suo genio grafico, Cassiano fece del Lucchesino la matita prediletta (almeno trecento disegni) nell’ambizioso progetto del Museum Chartaceum, i cinque ponderosi volumi, oggi conservati nella Royal Library di Windsor Castle, con cui intese documentare al dettaglio le reliquie della Roma classica. Riproducendo «li migliori bassi rilievi antichi, e le statue più singolari della città», come scrive Passeri, Testa acquisì un’intimità ossessiva con il canone classico, che fu la sua fortuna e insieme la sua disgrazia.
La frequentazione di Cassiano lo introdusse in un circuito – dove brillava Nicolas Poussin, del lucchese compagno fraterno – che prevedeva l’adesione a un modello intellettuale ‘sproporzionato’, inadatto ai suoi carismi. Ne nacque una scissione profonda, di cui è prova indiretta un taccuino di appunti teorici sull’Ideale della Pittura, conservato a Düsseldorf ed edito nel 1984 dalla migliore esperta di Testa, l’americana Elizabeth Cropper: qui un pensiero originale si esprime solo a lampi tra le brevi fenditure di un ingombrante apparato dottrinario, fondato sulle «certezze matematiche», cui il nostro sembra doversi attenere. Alla fine degli anni trenta, quando comincia a stendere il suo Trattato, Testa realizza la monumentale acquaforte con Il Liceo della Pittura, capo d’opera della sua Maniera Magnifica: per quanto, nel cartiglio in basso a sinistra, assuma che la «Teorica», «per se stessa di legami avvinta», debba unirsi alla «Prattica», «nella sua libertà… per se stessa cieca», dalla Teorica fu schiacciato, ed è esattamente nei momenti in cui se ne rende libero che Testa raggiunge, non cieco, i suoi esiti più alti: certi rami, o ancor meglio certi disegni, più o meno inchiostrati, che li preparano, in cui l’Antico, non più oggetto di acribìa documentaria, sembra svegliarsi da un lungo sonno, uscire da una crisalide snodandosi in posture bizzarre di nudi angolosi, in ‘affetti’ intensamente partecipati, fra serietà morale e allarme esistenziale.
Lo stesso sovraccarico allegorico, pieno di riferimenti esoterici, cui Testa è spinto, nelle incisioni, dal suo forzato intellettualismo, si scioglie – vedi la serie delle Stagioni (prima metà degli anni quaranta) – nella qualità così ribelle dello sbalzo grafico, un linguaggio abbreviato, un rapporto quantomai elastico fra la drammaticità dei pieni e la serena distensione (specie nelle lontananze) dei vuoti. Storicamente, la spregiudicata contesa fra semantica e forma plastico-luminosa ha suscitato perplessità nei conoscitori di grafica. Ma è il vero quid del Lucchesino: chi guarda ne è prima frastornato, poi, conquistato, dimentica facilmente la babilonia dei significati, si lascia prendere nel vortice di una fantasia stregata perché tutta inverata nell’intaglio, ed è spinto a zoomare sul vivido dei dettagli.
Restato ai margini della corte pontificia, nella stagione Barberini così come in quella Pamphilj (Innocenzo X), è nel mondo, stupendamente descritto da Francis Haskell, del mecenatismo privato che Testa svolse la sua instabile carriera, apprezzato da Cassiano ma anche dal marchese Vincenzo Giustiniani (cui lo introdusse Sandrart, che a Pietro voleva bene), l’altro arbiter elegantiae della Roma del tempo, e da una serie di amateurs minori che la ricerca sempre più mette a fuoco. La scarsità di commissioni pubbliche – quasi tutte frutto (tramite specialmente l’alto prelato Gerolamo Buonvisi) dei legami con la nazione lucchese, sia a Roma sia, di più, in patria – fu il suo vero cruccio, condiviso con Salvator Rosa, a cui lo appaia anche l’idea ‘eletta’ del proprio operare, e la sensazione urticante che il mondo non la corrisponda. Quello si lamentava perché non gli richiedevano dipinti d’historia ma solo «li paesi piccoli, sempre sempre li paesi piccoli»; Testa dovette ripiegare sull’acquaforte in mancanza di commissioni. Entrambi cercarono di elaborare la loro insoddisfazione abbracciando lo stoicismo, la religione alternativa del Seicento, in una forma che, proprio per l’eccesso di implicazioni esistenziali se non psichiatriche, risulta abbastanza sospetta, e non giustifica la categoria di «pittori del dissenso», comprendente anche Mola e il Grechetto, che Luigi Salerno formulò in un saggio, troppo ‘sessantottino’, del 1970.
Ma Testa era più fragile, solitario e irresoluto del Rodomonte dell’Arenella Salvator Rosa, e dalle fonti è possibile tracciare un diagramma del suo disperato discendere. Più volte lo vediamo alle prese con desolanti problemi economici, al punto che Sandrart, commosso, accorre in suo aiuto con «cibo, vesti e denaro». Nel luglio del 1636 gli sono ipotecati i beni immobili; un anno dopo un profondo taglio alla testa, «cum aliquo vitae periculo», gli è procurato in una rissa; di lì a poco, a settembre, lo ritroviamo incarcerato a Tor di Nona: lo ha fatto arrestare il suo primo protettore dal Pozzo, al quale l’artista non ha saldato, con due dipinti come convenuto, un debito.
Il riferimento costante di Testa è Poussin, la cui evoluzione dalla libertà pagana del momento neoveneto alla severità meditativa degli anni a seguire egli interpreta da par suo, senza riuscire a raggiungere il distacco intellettivo del «pittore che lavora di là», come documentano le due tele conturbanti della Galleria Spada, l’Allegoria della strage degli innocenti (1638-’40) e Il sacrificio di Ifigenia (1640-’42). Negli ultimi anni, sia in pittura che in acquaforte, la psiche esacerbata scava cupe ombre di stampo caravaggesco (nei quadri si riduce perentoriamente la gamma cromatica, i rami si ‘appesantiscono’), e il ritorno all’Antico, lasciato relativamente in disparte nella stagione intermedia, sembra orientato, come sostiene la critica, a una scelta di soggetti in cui si rispecchia il turbamento esistenziale. Da una parte il Lucchesino disconosciuto trionfa idealmente come «artista virtuoso» sulle miserie del mondo ascendendo al Parnaso (dipinto di Monaco di Baviera e incisione corrispondente); dall’altra ricorre in modo singolarmente ripetuto a figure della tradizione classica in cui «pareva a lui di trovare una eguaglianza di sventure» (Passeri), prefigurazioni, quasi, della sua morte tragica: Catone e Didone, suicidi; Alessandro Magno salvato dalle acque del Cydno, cioè a dire il Tevere…; Enea sulle rive del fiume Stige, in un’opera tenebrosa, resa nota dalla Cropper nel 1988, con il nerboruto Caronte «occhi di bragia» e l’insepolto supplicante Palinuro che quasi prevedono Füssli.
Subito dopo il Sant’Angelo Carmelitano, Testa aveva sperato di realizzare in affresco, per la fiducia accordatagli dal priore di San Martino ai Monti, la Tribuna della Chiesa, con scena dell’Apocalisse, ma si intestardì a escogitare una soluzione inattuale, dichiaratamente anti-barocca, e si dilungò nella fase preparatoria: non se ne fece nulla. Fu un colpo. È vero che un’altra importante commissione, i «chiari scuri» del Volto Santo, oggi perduti, per la chiesa Nazionale dei Lucchesi nel rione Trevi, andò a buon fine, e divenne, nella sua sublimità, che riecheggiava i monocromata antichi, un’opera ammirata e studiata, ma un’altra disdetta, stando alle parole di Passeri, sarebbe intervenuta, allorché fu deciso di tirar giù gli affreschi che aveva realizzato in Santa Maria dell’Anima, dispiaciuti al «gusto de’ Professori», per sostituirli con quelli di Jan Miel.
Possiamo immaginare, se la circostanza è vera, quale effetto dovette produrre sui nervi scoperti di un giovane uomo che viveva l’Arte, e l’arte sua, come composizione platonica della realtà e senso ultimo. «Quasi si abbandonò affatto, e… se ne andava solitario ne luoghi li più ritirati». Alcuni malevoli, aggiunge Passeri, sostennero che preparasse il finale «con espresse dimostrazioni»: «abbrugiare i suoi disegni», «licenziarsi dagli amici con parole ambigue». Lo stupendo autoritratto in sanguigna di Madrid, Academia de San Fernando, anche trasferito su rame, ce lo consegna nei suoi ultimi mesi, Pictore eccel.te, con il toccalapis e lo stiratoio, i capelli che scendono scompigliati, l’espressione altera nella bocca amara.
Povero Pietro Testa, né civis lucensiscivis romanus, figlio di una congiunzione astrale che lo ha sradicato

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