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Il testacoda pop del più artista fra i pubblicitari

Il testacoda pop del più artista fra i pubblicitari

A Venezia, Ca' Pesaro, "Armando Testa", a cura di Gemma De Angelis Testa, Elisabetta Barisoni e Tim Marlow «Visualizzatore globale» (Gillo Dorfles), o «domatore di immagini», come si appellò egli stesso, ha piegato il linguaggio delle avanguardie storiche alle urgenze di spettacolo del boom

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 8 settembre 2024

Fra il 1967 e il 1971 Armando Testa (Torino, 1917-1992) aveva realizzato un ciclo di omaggi a Piet Mondrian. Le griglie ortogonali e le compatte campiture dei quadri neoplastici erano diventate rilievi aggettanti di piani in formica smaltata, enfatizzando in maniera ludica l’incastro di elementi architettonici: ciò che nelle tele del maestro olandese era frutto di una disciplina ascetica fino a spersonalizzare la pittura, qui era un gioco «pop», reso spiazzante dal contrasto kitsch con le volute dorate delle cornici barocche.

È un’operazione che riassume molti aspetti del mondo di Testa: un acuto senso d’osservazione, senza filtri e preconcetti, capace di rileggere con ironia le sollecitazioni del mondo circostante e di commentarle attraverso la produzione di nuove immagini.

In questo caso, la reinterpretazione sembra mettere in luce senza moralismi quell’usura fino al paradosso provocata dal consumo delle immagini, fra disadorno rigore della geometria e ornamento fiorito e di gusto borghese. È lo stesso principio che gli aveva consentito, con inaspettato cortocircuito, di paragonare il dittico dei duchi di Montefeltro a una scena da famiglia in gita domenicale, alla Rockwell, dando così una sfumatura «pubblicitaria» a Piero della Francesca. Oppure di prendere una scultura precolombiana, che poteva ricordare Brancusi e pareva adatta a reggere in mano un giornale, da cospargere di caratteri tipografici come in un’opera di Jirí Kólar.

La storia dell’arte, infatti, è stata una presenza costante nella cultura visiva del «più artista tra i pubblicitari, il più anomalo fra gli artisti», di cui dava prova un piccolo e brillante libro uscito per Allemandi pochi mesi dopo la scomparsa di Testa, radunando i suoi brevi e folgoranti commenti sulle mostre e sui costumi del sistema dell’arte (indimenticabile la definizione di «modernazzone» per quadri quotatissimi ma in breve tempo fuori moda), usciti sui primi numeri del neonato «Il Giornale dell’Arte»: come titolava quel volume, egli si era messo Dalla parte di chi guarda.

Armando Testa, “Gessetto”, 1978-’20, coll. priv.

Non si può fare a meno di pensare a quelle pagine – da tempo purtroppo introvabili – visitando la bella mostra curata da Gemma De Angelis Testa, Elisabetta Barisoni e Tim Marlow a Ca’ Pesaro fino al 15 settembre (catalogo Silvana Editoriale, pp. 224). Seguendo un format consolidato nelle retrospettive su di lui, infatti, l’esposizione ripercorre in tandem le strade parallele e comunicanti del pubblicitario e della ricerca pittorica, offrendo il tuttotondo complesso di un «domatore di immagini» – come appellò se stesso in un articolo del 1964 – o del «visualizzatore globale» – come scrisse di lui Gillo Dorfles –, capace di muoversi fra il registro della comunicazione di massa e la pittura autonoma dalle dinamiche di committenza, con una libertà che sembrava preclusa a molti «persuasori» della sua generazione.

Fu questo connubio, infatti, a consentirgli di guidare la transizione, secondo una sua felice definizione, dal cartellone «romantico» a quello «operativo» richiesto dai tempi moderni, affermandosi non solo quale una delle figure più originali nel suo campo, la più congeniale agli storici dell’arte, ma una delle più significative del Novecento in Italia: in controluce, la sua avventura creativa, interamente gravitante su una città decentrata ma sperimentale come Torino, non solo attraversa il secolo, ma è una cartina di tornasole di un paese in rapida trasformazione, in cui cambiano non solo i mezzi di comunicazione, ma i costumi degli italiani, le loro esigenze e i loro sogni.

Una biografia intellettuale che intrecciasse la sua storia ai mutamenti socio-economici, al dibattito artistico e storiografico, oltre agli scritti in cui Testa ha messo a fuoco gli assi portanti del suo metodo e dei suoi processi creativi, offrirebbe infatti un impagabile spaccato di cinquant’anni di cultura degli italiani tramite le metamorfosi del gusto dalla fine del regime al boom economico fino agli anni del riflusso.

Egli si era infatti avvicinato al mondo della pubblicità nel corso degli anni trenta, portando nella cartellonistica le istanze più avanzate dell’astrazione geometrica.

In seguito non avrebbe disdegnato il ricorso a tecniche di combinazione surrealista per visualizzare slogan e associazioni di idee tramite l’ibridazione di immagini, dal copertone-proboscide dell’elefante per la Pirelli (1954) al copertone-criniera che «artiglia l’asfalto» per lo stesso marchio (1954) fino alla carica del rinoceronte-automobile per la Esso (1956).

In quel frangente, grosso modo in concomitanza con la fondazione dello Studio Testa nel 1956, egli aveva dato una svolta al linguaggio grafico introducendo nella cartellonistica lo sfondo bianco, inchiodandovi così un’immagine icastica e araldica. Bisognava puntare tutto su forme semplici e impattanti, tenendo sempre presente, dirà Testa stesso, che «la sintesi è il nostro mestiere»: l’invenzione poteva essere allusiva, ma non doveva creare equivoci fra messaggio promozionale e immagine.

Per questo, affermò in alcuni degli articoli ripubblicati nel 1992, René Magritte era un pittore ideale per il saccheggio da parte dei pubblicitari, di cui sovente aveva adottato a sua volta le tecniche e gli stili.

Ma a tale principio Testa sarebbe rimasto fedele anche dopo, trovandosi in anticipo sulle istanze minimaliste in uno dei suoi cartelloni più celebri: il Punt e mes per la Carpano (1960), con la sua mezza sfera rossa sormontata da un’altra sfera, che gli guadagnò un omaggio esplicito da parte di Mimmo Rotella.

Era però il surrealismo l’avanguardia più «pop», che offriva gli strumenti per combinare immagini di impatto, come le dita inchiodate a croce nella campagna referendaria sul divorzio (1970), o quelle legate come un mazzo di asparagi per la copertina di «Humor graphic» (1975), pronte a migrare in una lunga serie di varianti sul tema fra schizzi su carta e quadri dai colori accesi: dita che si intrecciano o campeggiano prorompenti, fin quasi a trasformarsi in capezzoli che ne tradiscono la carica erotica.

La coerenza pubblicitaria, tuttavia, non contempla solo l’arte della citazione, ma una duttilità dello stile che alterna disinvoltamente illustrazione iperrealista e sprezzatura pittorica: conciliava così il tedoforo esemplato sulla lezione di Mario Sironi nel primo manifesto per le Olimpiadi di Roma (1958) e il fotomontaggio con monumentale pollice che si erge in mezzo a un parcheggio di coloratissime auto, come una scultura di César, sulla copertina di «Linea Grafica» (1970).

Allo stesso tempo, lo stile e l’arguzia inventiva di Testa non mutavano, sia che ricorresse al disegno o, come in molte campagne di carattere sociale, alla fotografia, o ancora affrontando la transizione dall’immagine ferma a quella animata, dalla cartellonistica a Carosello.

Come fa notare Marlow, Testa ragionava più per immagini che per narrazioni, costruendo «le sue rime e i suoi giochi visivi» come strumenti sofisticati messi al servizio dei marchi e dei prodotti, con un inedito senso del meraviglioso e dell’assurdo uniti ai modi della caricatura.

Nei quasi due minuti concessi dai regolamenti della televisione di Stato per uno spot, egli era riuscito a declinare con bonaria ironia l’austera geometria monocroma degli artisti suoi contemporanei, per dare vita ad alcuni popolarissimi personaggi del cortometraggio pubblicitario: da Caballero e Carmencita a Papalla, fino al popolarissimo Pippo, l’ippopotamo blu come un monocromo di Klein.

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