Il museo archeologico di Sofia ha recentemente inaugurato l’esposizione del tesoro di Nagyszentmiklós, una serie di ventitré tra anfore, piattini, recipienti, coppe d’oro dal peso totale di 10 chilogrammi conservati nel Kunsthistorisches Museum di Vienna. La mostra, già di per sé eccezionale perché è la seconda volta che l’intero tesoro lascia il museo viennese (la prima esposizione è stata fatta a Budapest nel 2002), ha avuto un immediato eco mediatico che eccede i meri limiti artistici.

L’ORIGINE DEI MANUFATTI non è ancora stata svelata con sicurezza e la storia che li circonda rimane avvolta in una serie di congetture che studiosi di vari Paesi cercano di svelare proponendo o privilegiando tesi in modo da appesantire, a volte in modo volutamente artificiale, ideologie che favoriscono argomenti e pretesti storici al fine di avanzare recriminazioni etniche, religiose e geopolitiche.

IL GOVERNO ROMENO, ad esempio, reclama la proprietà del tesoro, essendo stato scoperto il 3 luglio 1799 da Neru Vuin, un contadino di origini serbe nella cittadina di Nagyszentmiklós, allora appartenente all’impero asburgico, ma dal 1919 compresa entro i confini della Romania con il nome di Sânnicolau Mare (nel comune, tra l’altro, in cui nel 1881 nacque il compositore ungherese Béla Bartòk).

I nazionalisti ungheresi, da parte loro, affermano che il tesoro confermerebbe la stretta relazione tra i magiari e gli avari giustificando l’ideale storico ed etnico di una Grande Ungheria che si estenderebbe dalla Vojvodina, alla Transilvania, Slovacchia sino alla Rutenia ucraina.

I BULGARI, infine, relazionano le migrazioni degli avari, imparentati con i protobulgari, con la Grande Bulgaria e i due imperi che ne seguirono (Primo e Secondo Impero Bulgaro), vantando un primato culturale e sociale sugli altri popoli slavi caricato anche dal fatto che in Bulgaria è nato l’alfabeto cirillico e il Paese è religiosamente governato da una chiesa ortodossa autocefala.
Il tesoro in mostra al museo archeologico di Sofia fino al 9 luglio rappresenta per i nazionalisti l’anello di congiunzione tra la volontà di ritornare alla gloria di Simeone il Grande e la realtà di una nazione alla periferia di tutto, schiacciata e indecisa nello scegliere un futuro con Europa, Russia o Turchia. Il collegamento con Simeone non è causale, visto che il suo regno coinciderebbe con l’occultamento del tesoro nel IX secolo d.C., esattamente il periodo durante il quale la valle di Maros, dove sorge Sânnicolau Mare, era occupata dai bulgari e dagli avari.

IN UN ARTICOLO DEL 2014 il giornale bulgaro Europost, con il titolo di «L’oro dei khan bulgari» attribuiva erroneamente (e forse non casualmente) la scoperta del tesoro di Nagyszentmiklós a due fratelli bulgari, Hristo e Kiril Nakoki, i quali lo avrebbero poi consegnato all’imperatore Giuseppe II (il quale, però, all’epoca era già morto da 9 anni).

VI SONO, INOLTRE, recondite (anche se ardite) somiglianze tra il tesoro di Nagyszentmiklós con i ritrovamenti del sito archeologico bulgaro di Novi Pazar. Alcuni studiosi bulgari per la verità anche in questo caso in modo alquanto arbitrario, associano una delle iscrizioni in caratteri greci che appare su un recipiente alla traslitterazione della lingua bulgara.

LA VERITÀ È CHE, nonostante le numerose ed accurate ricerche effettuate sui reperti, non si è ancora giunti ad una sua precisa datazione, anche se la maggioranza degli studiosi concordano nel collocare i manufatti nel periodo tardosasanide e protoislamico (VII-IX secolo d.C.).

Una delle ipotesi più accreditate, infatti, rimanda la realizzazione dei manufatti alla cultura avara (VII-VIII secolo), primo nucleo della nazione ungherese, o, in seconda ipotesi, in Bulgaria, nel IX secolo, nella fase di sviluppo del Primo Impero Bulgaro.

ALTRE VENTI ISCRIZIONI in caratteri runiformi (di cui quattordici identiche) presenti su altri oggetti del tesoro rimanderebbero ad una lingua di ceppo turco, così come i nomi di bouela e boutaoule il titolo di zoapan della trascrizione greca deriverebbero da una cultura turcofona. Ma in nessun caso vi è accordo sul significato di questi testi.

Anche sotto il punto di vista artistico i reperti sono riconducibili a diverse epoche storiche: le scene di caccia e del rapimento in cielo del sovrano da parte di un’aquila (Garuda) sono chiaramente motivi sasanidi e protoislamici; alle steppe (da cui arriverebbero i proto-bulgari, iniziatori della Grande Bulgaria) si ricollegano le scene del re vittorioso; all’arte bizantina, infine, il combattimento degli animali. L’arte metallifera protobulgara, però, più che a quella delle steppe, andrebbe collegata a quella bizantina.

Ad ingarbugliare ancora più il rebus del tesoro di Nagyszentmiklós è la destinazione d’uso dei singoli oggetti. Parte di questi, infatti, sembrerebbe essere stata destinata a pranzi importanti, mentre la presenza di simboli religiosi quali le croci o l’unica iscrizione chiaramente decifrata, in greco, che ricorda un battesimo, rimandano altri manufatti ad un utilizzo prettamente sacro. Proprio l’iscrizione greca escluderebbe che queste opere siano state forgiate da una mano bizantina, riconducendo di nuovo gli studiosi all’ipotesi avara dell’VIII secolo.

È IN QUESTO CAMPO CHE OGGI si concentrano le ricerche: la differenza di caratura dei singoli manufatti porterebbe ad assumere che il tesoro sia stato forgiato in diversi periodi a cominciare dall’arrivo nei Carpazi, nell’VIII secolo, dei profughi cristiani greci in fuga dalla persecuzione iconoclasta dell’imperatore bizantino Leo III.

Fu durante una di queste migrazioni che il khan bulgaro Krum occupò, a partire dall’803, il territorio avaro dei Carpazi e per occultare il tesoro ai nuovi invasori, gli avari lo seppellirono tra il 795 e l’803, nel villaggio di Nagyszentmiklós.

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Illustrazione ottocentesca del «Tesoro di Nagyszentmiklós»