Si può dare forma al gas? Ci hanno provato per vent’anni alcuni anarchici e diverse procure. Con opposti obiettivi. I primi per sperimentare organizzazioni basate sul rifiuto di vincoli stabili, ruoli dirigenziali e gerarchie: gli elementi costitutivi di molte associazioni, soprattutto quelle a delinquere o con finalità di terrorismo. Le seconde per catalogare e colpire il fenomeno sfuggente degli «anarchici informali», principalmente attraverso gli articoli 416 bis e 270 bis del codice penale.

CERVANTES, Brushwood, Sibilla, Ardire, Bialystock e soprattutto Scripta Manent sono le inchieste che hanno provato a disegnare i contorni della Federazione Anarchica Informale (Fai). Per l’accusa un’organizzazione terroristica che avrebbe coordinato decine di azioni, tendenzialmente esplosive, a cominciare dal 2003. Da una parte plichi incendiari, pacchi bomba, una gambizzazione e tante scritte minacciose. Dall’altra blitz spettacolari, misure cautelari, lunghi processi. In cui l’ipotesi dell’associazione è sempre caduta, lasciandosi dietro i reati singoli su cui invece sono fioccate le condanne. Fanno eccezione solo Alfredo Cospito, Anna Beniamino e Nicola Gai: gli unici tre anarchici riconosciuti definitivamente colpevoli di appartenere alla Fai.

A UNIRE I PUNTI di questa vicenda, per la prima volta, ci pensa Mario Di Vito. Lo fa con il rigore del cronista alla ricerca di un «tono neutrale», ma anche con la sensibilità necessaria di un giornale diverso dagli altri, il manifesto, quotidiano dove lavora. «Chiunque, a torto o a ragione, metta la propria esistenza al servizio di un ideale di giustizia merita quantomeno di essere trattato con dignità», scrive Di Vito.
Con La pista anarchica. Dai pacchi bomba al caso Cospito (Laterza, pp. 176, euro 18) l’autore continua a scandagliare gli ambienti politici più estremi, quelli delle scelte armate. Percorso iniziato con Colpirne uno. Ritratto di famiglia con Brigate Rosse in cui aveva ricostruito il sequestro Peci del 1981. Ad accomunare i due libri una scrittura che non teme l’ironia, neanche di fronte a fatti seri o drammatici.

TROPPO DIVERSI i periodi storici, le ideologie, i gruppi. Lasciate alle spalle direzioni strategiche, scontro di classe e cuore dello Stato, ci si addentra in un mondo lontano da movimenti di massa e speranze di trasformazioni collettive. Non sono finiti solo gli anni ’70, ma anche gli ’80 e i ’90. Il terzo millennio dell’anarchia più o meno armata è segnato dall’«informalità», intesa come «uno dei tanti modi per attaccare Stato e capitale». Un progetto liquido perché refrattario alle strutture, basato sulle affinità e incentrato sulla «propaganda del fatto». L’orizzonte non è la rivoluzione, ma la sua impossibilità. Restano il gesto esistenziale di rottura, l’evento che si conclude in se stesso e l’obiettivo di far paura al nemico.

SOLO IN QUESTA CORNICE la pratica armata può illudere di avere ancora senso, nonostante la piega che ha preso il mondo. Perché, scrive Di Vito, negli ultimi decenni la «critica delle armi» non ha ottenuto alcun risultato, «almeno a queste latitudini». Anzi è stata quasi sempre controproducente. E questo è un fatto.
Come è un fatto che per le attività rivendicate con il nome Fai ci sono stati dei feriti, il più grave l’ad di Ansaldo nucleare Adinolfi che è stato gambizzato, ma mai dei morti. Un terzo fatto è che lo sciopero della fame di Cospito, all’origine del libro, ha mostrato all’Italia importanti cortocircuiti del sistema penale e penitenziario, e in fin dei conti di quello democratico, che dovrebbero preoccupare più chi ha fiducia nello stato di diritto che gli anarchici, i quali alle regole non hanno mai creduto.

Cospito ha preso meno carcere per aver sparato alle gambe di un uomo, rivendicando l’attentato, che per due bombe senza morti o feriti di cui ha negato la paternità. 9 anni e 6 mesi contro l’ergastolo. Solo l’intervento della Consulta ha ridotto quella pena, a cui la riconfigurazione del reato in «strage politica» operata dalla Cassazione aveva dato carattere fisso. È rimasta comunque molto alta: 23 anni.
Da maggio 2022 Cospito è al 41 bis, che ha definito una «tomba per vivi». Primo anarchico a finire nelle celle pensate per i boss mafiosi, come se fuori non avesse un’area gassosa di libertari ma una cupola strutturata di assassini in attesa di ordini.

IL REGIME DETENTIVO speciale gli è stato riconfermato il mese scorso, contro il parere della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, sua principale accusatrice. «Sono l’unico coglione che muore nel progredito Occidente democratico poiché gli viene impedito di leggere e studiare quello che vuole, giornali anarchici, libri anarchici, riviste storiche e scientifiche, senza trascurare gli amati fumetti», aveva scritto nel pieno del digiuno che lo ha quasi ammazzato. Alla fine è rimasto vivo, insieme a tutte le ambiguità di un paese messo a nudo dal fondo delle sue carceri.