In questi giorni a Napoli è possibile visitare Matando el Rato della giovane artista cubana Eileen Noy presso la Fondazione Morra Greco, per la cura di Giulia Pollicita (fino al 30 marzo).

L’opera, declinata in varie figure e forme di fotografi, video e installazione, ci invita a considerare il mondo tramite una serie di prospettive provenienti da un’isola dei Caraibi. Qui, la temporalità disciplinata del «progresso» lineare è rallentata, tagliata, deviata e dispersa in altre narrazioni e temporalità. La storia viene valutata da una sedia sulla soglia della strada; i ritmi dei tropici interrogano il nostro tempo e, con esso, le nostre identità, che noi presumiamo siano assicurate nella trasmissione continua del nostro ordine temporale.

PUR SE RARAMENTE riconosciuto, viviamo un’epoca dettata da un passato coloniale. Nel caso specifico dei Caraibi sono stati governati nei secoli recenti da Madrid, Parigi e Londra, in alcuni casi fino a soli sessant’anni fa. Ma esistono anche le vicende della resistenza a tale passato: dalla prima rivolta di successo contro la schiavitù dei giacobini neri e la fondazione di Haiti alla fine del Settecento fino alla storia più recente di Cuba. Questa resistenza prende forma anche nel riappropriarsi del tempo e della lingua importata e impostata, strappandoli alla loro provenienza europea e rielaborandoli. Si passa dall’altra parte del tempo per alienarsi dalla narrazione dominante e dallo status quo dei poteri esistenti. Si cambiano le coordinate dello spaziotempo, bloccando il meccanismo dell’orologio coloniale con la sedimentazione di storie, culture e vite negate.

I Caraibi: un arcipelago di isole sostenute dal mare. Ammazzare il tempo per esplorarlo, rallentandolo e curando le sue potenzialità, si sfugge così dalla trasparenza richiesta dalla narrazione lineare. Si smonta la sintassi occidentale e si fa incrociare con le vicissitudini della schiavitù, del colonialismo e delle lontane grida dell’Africa, sia nei suoni creolizzanti della musica caraibica, sia nella poesia del patois, sia nella filosofia delle pieghe e dell’opacità di Édouard Glissant.

Se, come ci dice il poeta di Santa Lucia, Derek Walcott, il mare è storia, non è solo per la testimonianza silenziosa dei corpi gettati negli archivi acquatici dell’Atlantico nero durante la tratta degli schiavi, ma anche perché costituisce un passaggio dai Caraibi al mondo intero. La migrazione dai Caraibi britannici e francesi dopo il 1945 è la più nota, soprattutto perché ha cambiato i linguaggi stessi utilizzati per comprendere la modernità: i critici militanti del colonialismo europeo, Aimée Césaire e Frantz Fanon sono arrivati dalla Martinica; uno dei principali fondatori degli studi culturali e postcoloniali, Stuart Hall, dalla Giamaica. Nel caso di Cuba è stato più complicato. Come Haiti 150 anni prima, è stata messa in quarantena e sotto embargo dagli Stati Uniti dal 1960. Dal 1992 le Nazioni Unite hanno approvato ogni anno una risoluzione che chiede la fine dell’embargo economico statunitense nei confronti di Cuba. Gli Stati Uniti e Israele sono le uniche nazioni che votano costantemente contro queste risoluzioni.

LO SRADICAMENTO e il distacco che accompagnano la condizione di esilio e che attraversano la letteratura, la poetica e le arti visive di tanti artisti dei Caraibi annunciano l’impossibilità del ritorno a casa. La cultura caraibica diventa un bagaglio, vive in movimento, in transito. Ha abbandonato la sedia sul portico, ma non necessariamente le lezioni che ha imparato da quella prospettiva. In transito, muovendosi attraverso una modernità che consideriamo semplicemente di nostra proprietà per autorizzare unicamente la nostra sovranità, interroga la nostra stessa comprensione dell’identità e dell’appartenenza.

QUESTE SONO LE ISOLE che si ripetono (Antonio Benítez-Rojo) con le loro pratiche postcoloniali di cut-up, di collage e del doppiaggio della modernità. Dove, per esempio, la musica dub giamaicana fornisce una metodologia con cui filosofare e praticare quella stessa modernità in maniera diversa.

Nella mostra, guardando le sedie, le case, il terreno circostante, i ceppi abbandonati nei campi di canna da zucchero che una volta erano piantagioni piene di schiavi, il tempo si scioglie per trasmettere altre storie. In quanto archivio, le foto qui in rassegna non possono offrire semplicemente una testimonianza di ciò che non è più presente. Interrogando la nostra epoca con altri tempi, aprono uno spazio tra l’immagine del passato e la sua rappresentazione attuale.

RADDOPPIANO e dividono il tempo da sé stesso, per evidenziare l’impossibilità di essere in un tempo semplicemente lineare e omogeneo. Le immagini, non come oggetto ma come istanza di interruzioni, interrogazioni, graffiano lo sguardo. Rendono il passato contemporaneo. Tale passato non è solo dietro di noi, ma anche accanto a noi. Piegando il tempo attraverso questo scambio quantistico, le coordinate stabili di separazione tra tempo e spazio, passato e presente, si dissolvono in un miscuglio transitorio. Qui, momenti di memoria trattenuti in percorsi e prospettive non riconosciute o registrate propongono altri futuri.

In altre parole, il passato è ancora possibile. Non esiste un passato in sé e per sé, ma solo quello che vive nella memoria e nel linguaggio. È una costruzione e una configurazione contemporanea. Questo senso del tempo è approfondito soprattutto negli spazi delle pratiche artistiche. Nella sua ricomposizione, l’arte è in grado di proporre futuri non colonizzati dai poteri del presente. Cuba e i Caraibi, come le temporalità tropicali e i suoni ripetuti delle storie dal basso con i loro ritmi del rimosso, propongono, come tutta l’arte, un laboratorio speculativo e sperimentale della modernità. Non tanto per spiegarla, quanto per ripensarla e praticarla in maniera diversa. Queste sono alcune delle prospettive che possiamo accogliere in questa mostra.