Cultura

Il tempo non corrotto

Il tempo non corrottoNapoleone, di Hiroshi Sugimoto, 1999

Fotografia A Modena un'antologica dedicata al maestro giapponese Hiroshi Sugimoto, a cura di Filippo Maggia, negli spazi del Foro Boario

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 13 marzo 2015

Non è facile ritrarre Hiroshi Sugimoto. Le espressioni, sul volto del fotografo giapponese (è nato a Tokyo nel 1948, vive e lavora tra New York e il Giappone), si succedono con una velocità imprevedibile: il guizzo d’ironia, la distrazione bonaria, la riservatezza, la mimica da istrione, l’intransigenza del perfezionista affabile. Nella summa di queste variazioni ritroviamo, del resto, la tensione stessa del suo sguardo, abile nel tenere a bada la tecnica fotografica, trovando il giusto equilibrio tra il lato poetico e il rigore necessario per la sua traduzione visiva.

A Modena Sugimoto, con il suo team di assistenti, è tornato più volte nelle fasi organizzative dell’antologica Stop Time, curata da Filippo Maggia e promossa da Fondazione Fotografia Modena e Fondazione Cassa di Risparmio di Modena con il sostegno di UniCredit (visitabile fino al 7 giugno). Una mostra che si snoda negli spazi del Foro Boario, ripercorrendo – attraverso una selezione di fotografie di grande formato – le tappe significative del suo lavoro, tra cui Dioramas (1976-2012), Lightining Fields (2009), Architecture (in corso dal 1997).
Per la prima volta sono esposti anche i cinquantadue cataloghi monografici realizzati in occasione di quarant’anni di carriera.

Parallelamente, Hiroshi Sugimoto sta implementando la notissima serie Theaters (iniziata nel 1976), fotografando anche i teatri italiani – soprattutto quelli di provincia – avvolti nella loro patina di passato glorioso, isole sospese nella contemporaneità, come il settecentesco Teatro Bibiena di Mantova (conosciuto anche come Teatro Scientifico dell’Accademia) in cui ha fatto montare uno schermo e solo dopo ore di grande concentrazione, aprendo al massimo il diaframma ha catturato con l’obiettivo del banco ottico quella che era la sua immagine mentale al fine di renderla visibile.
Da lontano, sembrano quasi dei light box quegli interni di teatri come Akron Civic, Ohio (1980), Canton Palace, Ohio (1980) e El Capitan, Hollywood (1993): solo avvicinandosi ci si rende conto che il bianco degli schermi così brillante nell’oscurità – espressione di un vuoto assoluto che è l’insieme del tutto – è accentuato dal contrasto con i neri e i grigi che lo circondano, magistralmente ottenuti in camera oscura con la stampa ai sali d’argento.

Analogamente ciò avviene nelle altre serie, tra cui gli orizzonti di Seascapes (in corso dal 1980), in cui lo sguardo si perde cercando le coordinate di un confine cielo/mare che tende alla metafisica.
«Ogni immagine è costruita per andare oltre ciò che apparentemente vediamo dichiarando la matrice concettuale del percorso del suo autore mentre, contemporaneamente, la costruzione formale di ogni scatto è organizzata per essere assoluta, senza una via di fuga, perfetta nei suoi equilibri e sempre spiazzante nella sua lettura» – scrive Luca Molinari nel catalogo della mostra modenese – «La luce e lo spazio che Sugimoto fissa con chiarezza cercano ossessivamente l’annullamento del concetto di tempo relativo che viviamo in modo superficiale nella nostra vita quotidiana, rincorrendo con ostinata lucidità un tempo assoluto, indiscutibile e non corrotto dalla Storia».

La storia è proprio la matrice della serie Portraits (1999), in cui il fotografo non ha fatto altro che ritrarre personaggi di cera, a loro volta citazioni di personaggi realmente vissuti attraverso la loro raffigurazione pittorica coeva, che alimenta nell’osservatore un vero e proprio cortocircuito percettivo. Tre sono i ritratti di «ingombranti» figure del passato esposti per l’occasione: tra il duca di Wellington e Napoleone Bonaparte, la regina Vittoria con il suo sguardo severo.
«Certe volte penso allo spazio in termine di tempo – spiega Sugimoto – La storia, per me, è lo spazio tra il passato e il presente. Ho una forte consapevolezza della storia umana. In questo senso sento di esser stato molto influenzato da Hegel e dall’ideologia tedesca».

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