Cultura

Il tempo moderno è seriale

Il tempo moderno è seriale

Scaffale L’ultima raccolta di saggi firmata dal teorico americano Fredric Jameson, «The Ancients and the Postmoderns. On the Historicity of Forms» (Verso edizioni). Da un'analisi su Mahler a quella sulla tv commerciale e alle nuove forme d'arte

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 10 novembre 2015

Se ripercorriamo brevemente l’itinerario teorico di Fredric Jameson – uno dei pochi marxisti oggi attivi nel campo della critica della cultura –, è facile constatare la presenza di un disegno sistematico, di un vero e proprio programma filosofico che elegge la transizione dalla modernità ai tempi nostri come oggetto di studio e di interrogazione. Sin dal celebre Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism (1991), l’attenzione di Jameson è rivolta a quell’enorme trasformazione epocale da cui la società dei consumi si impone ed esce fuori trionfale, investendo tutti gli ambiti del sapere e dell’esistenza.

Di tale metamorfosi le opere d’arte sono – sulla scorta della lezione di Adorno – sintomi, registrazione sismografiche, o, per dirla appunto con Jameson, manifestazioni di un inconscio collettivo che assume forme e rappresentazioni diverse. Fuori dalla logica della rottura e dalla moda della differenziazione autonomistica dei livelli di indagine, Jameson ha da sempre esaltato la necessità di una lettura unitaria dialettica della sfera culturale, legando quest’ultima – per alcuni rozzamente, per altri in modo convincente – alla processualità materiale ed economica.

Così, per rievocare una delle sue tesi più note, la pluralità di stili e di pose culturali dei nostri tempi si può ricondurre ai caratteri sistematici di un nuovo sensorio, del tutto dipendenti dall’imperialismo di un preciso sistema economico, il quale non soltanto per la prima volta in modo avvolgente ha inglobato la cultura all’interno delle sue articolazioni, ma se ne è fatto agente propulsore, vero e proprio autore. E, pertanto, il postmodernismo – nelle sue innumerevoli accezioni, che Jameson ha cercato nei suoi studi di ridurre a totalità coerente – rappresenta la logica culturale del capitalismo tardo, così come gli oggetti culturali più recenti si pongono quali allegorie di un modo di produzione che cambia continuamente faccia, che affina sempre più i suoi strumenti di dominazione. Sicché, per dirla in breve, le teoria di Jameson sul rapporto tra moderno e postmoderno riabilita prepotentemente, e in modo assai dialettico e relazionale, le fondamentali intuizioni di certo marxismo novecentesco che ha insistito sul bisogno di concepire le forme culturali nella loro intima storicità: il «rispecchiamento» di Lukács su tutti.

Sulla mutazione che ha investito l’esperienza estetica e sulle nuove forme di temporalità e spazializzazione suggerite dalle opere d’arte insiste l’ultima raccolta di saggi firmata dal teorico americano, The Ancients and the Postmoderns. On the Historicity of Forms (Verso, pp. 308). Fra i recenti libri di Jameson, è quello più convincente (forse ancor più del precedente The Antinomies of Realism) proprio perché inscena lo sforzo di chiarificazione concettuale di alcuni nessi tradizionalmente affrontati nei lavori dello studioso marxista. L’interrogazione sul moderno è anzitutto analisi ideologica: gli oggetti culturali sono le manifestazioni problematiche di un rapporto col tempo e con lo spazio sociale che è assai vario e che riflette una serie inestricabile di contraddizioni. Per mostrare quanto tale storicità si trasformi e muti, sullo sfondo di una totalità che lo hegeliano Jameson vede sì modificarsi ma sempre porsi come necessaria, il critico della cultura sceglie di affrontare una serie di questioni estetiche e di opere sintomatiche di una certa situazione storico-materiale: la pura modernità – ciò che appare ormai come una sorta di «classicismo moderno» – è rappresentata dalla musica di Wagner e dai lavori sinfonici di Mahler; il trapasso da una modernità ormai in crisi alla postmodernità consumistica si riflette nel tardo-modernismo resistente del cinema di Sokurov o nella necessità di una narrazione collettiva che emerge dalle opere di Angelopoulos; la postmodernità compiuta si dà nelle nuove forme d’arte, dalla tv seriale alla regia iper-spettacolare di certe opere liriche.

Si tratta di scelte occasionali – Jameson è, in tal senso, un critico militante, a cui però scarsamente interessa il giudizio di valore –, che offrono la possibilità di diagnosticare, in una modalità che insistentemente viene definita come dialettica, caratteri e problemi dell’epoca attuale.

Nello studiare il problema della forma in Wagner, Jameson intende dimostrare quale idea della totalità emerga dall’idea di un’opera d’arte totale: il tentativo di porre assieme diversi livelli espressivi è sì un atto di resistenza allo specialismo dei linguaggi estetici, ma è pure un riflesso storico di una dinamica di «differenziazione» (direbbe Luhmann) innescata dalla modernità e poi fatta propria dal postmoderno, in virtù della quale il lavoro del compositore può leggersi come l’esito di un rapporto assai problematico e peculiare tra l’idea di un rassicurante tutto musicale e di una miriade di particolarismi espressivi che rischiano di diventare semi-autonomi, di vivere di vita propria (pensiamo ai caratteri della wagneriana melodia infinita, ad esempio).

Nelle sinfonie di Mahler – e il saggio sull’autore di Das Lied von der Erde vale l’intero volume di Jameson – l’emersione del medesimo problema formale è vista come una battaglia ideologica del compositore con la potenza espressiva dell’individualità strumentale e con il moltiplicarsi delle possibilità sonore (allegorie, se vogliamo, di una totalità in cui le parti ambiscono a relativizzarsi sempre più): la raffinatezza dell’orchestrazione mahleriana sta appunto nell’assegnazione di un preciso contorno caratteriale agli strumenti (pensiamo ai tromboni nella Terza, ai giochi timbrici della Quarta, e via dicendo), e la problematicità estetica risiede nei modi in cui tale processo di individualizzazione si integra nella ciclicità di una narrazione sinfonica ciclopica.

Da qui, l’idea – che Jameson gioca in contrasto con le metamorfosi postmoderne in materia – per la quale il moderno si esprima anzitutto nella complessa costruzione di nuove forme di temporalità (sinonimo di nuove forme di coscienza sociale), ossia di narrazioni in grado di restituire al soggetto degli spazi di orientamento, senza la necessità di una qualche forma teleologica di riconciliazione. La dismissione della totalità e di una forma temporale socialmente spendibile o anche soltanto diagnosticabile è riflessa dai prodotti culturali della postmodernità. Ma Jameson, che pure si nutre alla lezione di Adorno, è lontano dal praticare valutazioni severe: la televisione commerciale, il serialismo televisivo, il fumetto, le nuove forme di video-arte non sono, per il teorico americano, espressione di un degrado estetico, bensì il segnale culturale di nuove forme di consapevolezza (o di inconsapevolezza) storica.

Per tale ragione, se è vero che il postmodernismo sia quasi sempre aderente ai tempi, ne risulti pressoché gestito nelle sue logiche, è vero pure che lo spirito oppositivo e contestativo dell’arte (che siamo soliti attribuire alle opere del moderno o dell’avanguardia storica), uscito dalla porta, rientra dalla finestra (nelle forme di un ritorno del represso) con il marchio dell’utopia. Nella postmodernità, la dimensione ideologica (l’appiattimento della narrazione su processi derivati dalle istanze profonde del capitalismo) trova una sua dialettica contropartita nella involontaria proiezione utopica di un mondo differente, che spesso esalta, al fondo di un’epoca frammentaria ed egoistica, una pulsione, forse celata, alla socialità: insistere su di essa è l’atto politico di cui si sostanzia una possibile teoria critica della cultura contemporanea.

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