Il tempo, la memoria e la tecnologia dei sentimenti
Cinema Al Science + Fiction Festival «Marjorie Prime» di Michael Almereyda
Cinema Al Science + Fiction Festival «Marjorie Prime» di Michael Almereyda
Ologrammi, fantasmi digitali, intelligenze artificiali come sostituti d’affetti. Al Science + Fiction Festival che si è inaugurato martedì sera a Trieste, capitale della fantascienza per una settimana, si parte da qui. Quanto terreno siamo (ancora) disposti a concedere alla tecnologia? Siamo pronti a lasciare che questa entri a far parte della nostra sfera emotiva? Stando a quanto capita di vedere recentemente sugli schermi, sia al cinema che in televisione, quel momento non dovrebbe ormai essere troppo distante. In breve tempo, lo spazio non solo fisico normalmente riservato ad altri esseri umani o alla solitudine, potrebbe essere occupato da interlocutori alternativi.
A poche settimane dall’uscita di Blade Runner 2049, ancora riverbera l’immagine sublime e straziante di Joi-De Armas, amante virtuale programmata per lenire il vuoto esistenziale nella vita di K-Gosling, ma non è neppure troppo lontano il ricordo della rassicurante voce prestata da Scarlett Johansson al sistema operativo che, in Her, intrecciava una relazione amorosa con il divorziando Joaquim Phoenix. Senza dimenticare San Junipero e Torna da me, episodi di Black Mirror entrambi orientati a chiedersi in che modo la tecnologia possa venire incontro all’essere umano per superare il dolore della perdita, il lutto, la morte.
Anche Michael Almereyda, autore dall’ondivago percorso «indie» scelto da Science + Fiction per inaugurare la kermesse, offre più interrogativi che risposte. Il suo film Marjorie Prime, presentato in anteprima italiana dopo il debutto al Sundance , è una dolente riflessione sul tempo e la memoria, sulla vita reale e digitale, sull’amore e sulla perdita. Un «kammerspiel» a tutti gli effetti, solidissimo esempio di fantascienza umanista e adattamento cinematografico della pièce di Jordan Harrison, finalista al Premio Pulitzer nel 2015.
Non deve sorprendere, allora, che il regista statunitense, notoriamente affascinato dai testi teatrali (gli adattamenti shakespeariani Hamlet 2000 e Cymbeline) ma anche dalle incursioni nel campo della scienza (The Experimenter) si sia affidato prioritariamente alla messa in scena rigorosa, all’ambientazione, alla parola.
Pochissimi gli elementi in campo: quattro attori in stato di grazia ( Lois Smith, Tim Robbins, Geena Davis e Jon Hamm), una casa che si affaccia sulla vastità dell’Oceano come sospesa nello spazio e nel tempo, la luce innaturalmente calda e quasi ovattata fotografata da Sean Price Williams e, in contrasto, le note dissonanti e minimali di Mica Levi che aggiungono inquietudine a un’atmosfera altrimenti troppo idilliaca e rarefatta.
E, soprattutto, fatta eccezione per pochi brevissimi flashback che restituiscono l’intensità della vita vissuta, interminabili conversazioni che si consumano tra esseri umani e Prime, proiezioni olografiche controllate da un software, tanto più convincenti quante più numerose sono le informazioni che possono ottenere. Il Prime non ha identità propria, si forma sulla memoria. Tramanda storie «personali» secondo l’antica tradizione orale, laddove è il ricordo stesso, o piuttosto il racconto di quel ricordo, a prevalere sull’oggettività dei fatti.
L’ottantaseienne Marjorie, un passato da violinista e i flebili ricordi di una vita vissuta pienamente che vanno e vengono a causa dell’Alzheimer, conversa a lungo con il Prime del defunto marito Walter, nella sua versione «quarantenne». Insieme rievocano un passato che non sempre coincide con la realtà, perché la memoria umana sbiadisce col tempo, e la verità stessa può essere manipolata o semplicemente «idealizzata». Il Prime non sa, ripete ciò che gli viene detto. Il Prime non sente. Non soffre. Non prova emozioni, le simula. Ma ascolta. Anche perché, come spesso ripete, ha a disposizione tutto il tempo del mondo.
Non vi è mai un giudizio morale in Marjorie Prime, gli interrogativi girano intorno a dilemmi filosofici ed esistenziali, più che scientifici o tecnologici. Ma resta addosso un profondo senso di malinconia. Perché alla fine, l’amore e la vita finiscono. Sempre. E a sopravvivere non sono altro che ricordi mutuati e lontani echi di parole vuote.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento