Nel vernacolo napoletano – lingua terragna ora shabby chic celebrando il terzo scudetto col gesto delle tre dita aperte, come un leonardesco Giovanni Battista- ‘o quatt ‘e magg rappresenta il trambusto, il disordine assoluto, l’agitazione creativa. Nei fatti la data, fissata con una prammatica del 1611 dal viceré spagnolo don Pedro Fernando de Castro, indicava la necessità di stabilire un giorno unico per gli sfratti e i conseguenti cambiamenti di locazione, nel caos indescrivibile di facchini e carrettieri, con le poche masserizie, a destreggiarsi nelle strade strette. «Core, fatte curaggio,/’sta vita è nu passaggio:/ Facimmoncillo chistu quatto ‘e maggio…» cantava Armando Gill, chansonnier e arguto improvvisatore di un secolo fa (la canzone risale al 1918), così il quattro di maggio è diventato sinonimo di trasloco. E quale deménagement più simbolico, di quello del calcio Napoli, issato definitivamente in testa alla classifica facendo smammare i tre squadroni (Milan-Juve-Inter) che hanno vinto il campionato negli ultimi venti anni? Per conoscenza o per intuizione, gli abitanti della capitale del mezzogiorno si sono rovesciati per le strade, il 4 maggio 2023, in una festa spontanea in concomitanza col pareggio di Udinese-Napoli, ossia la certezza matematica dell’ambito trofeo, atteso da 33 anni e vinto solo nel 1987 e nel 1990 con le fantastiche evoluzioni dell’amato Diego Armando (al quale poi è stato intitolato lo stadio di Fuorigrotta, non più San Paolo).

IL TEMPIO E IL RITO
Da Maradona al Maradona, il tempio dove va in scena il rito. E dove, un mese dopo, il 4 giugno, domenica prossima, andrà in scena la festa finale, quando il Napoli alzerà la coppa dei campioni d’Italia, l’apoteosi spettacolare con cantanti, attori, showgirl, trasmessa in città e in alcuni centri della provincia su maxischermi (e in diretta Rai2). Il trasloco, metaforicamente inteso come innovazione, è stato la base della vittoria del team azzurro, formazione che ha predicato calcio veloce, originale e fantasioso con ampio possesso palla, pressing alto e tante opzioni d’attacco, dal dribblatore ragazzino con la barba d’asceta Kwara al furore travolgente dell’uomo mascherato Osimhen fino all’esterno infaticabile, sempre presente, il capitano Di Lorenzo e il difensore piè veloce, beniamino dello stadio che l’acclama in coro, Kim-Kim-Kim. Proprio l’estate scorsa il presidente Aurelio De Laurentiis (coadiuvato dal ds Giuntoli e dal tecnico Spalletti) ha scelto di lasciar andare alcune superstar (Koulibaly, Insigne, Mertens, Fabian Ruiz) e di rafforzare la strategia imprenditoriale, o meglio padronal-familiare, seguita in questo quadrilustro di gestione. Conti a posto e ossessiva cura del bilancio, ricerca di giovani calciatori non famosi, assemblarli insieme con un buon allenatore, farli crescere e poi rivenderli a prezzi maggiorati ai top club (da Lavezzi a Cavani e Higuain). Criticato per alcune opacità (i suoi familiari, moglie e figlio, prendono cifre da capogiro, come componenti cda; è proprietario di un’altra squadra, il Bari, in aperta violazione delle norme federali; base e campi d’allenamento del club sono a Castelvolturno, a 50 km da Napoli), il suo lungo avvicinamento alla vittoria più preziosa è stato graduale con tanti piazzamenti onorevoli (quello che brucia di più il secondo posto del 2017/18 di Sarri con 91 punti, dietro la Juventus) e quattordici anni consecutivi di partecipazione alle coppe europee.

MARCIA TRIONFALE
Con tenacia e scaltrezza (ma anche qualche iniziale contestazione dei tifosi, preoccupati dei tanti mutamenti nell’equipe), questa stagione sorprendente è stata una marcia trionfale, da gennaio in poi quando il distacco con le avversarie si è tramutato in profondo baratro, con un filotto di vittorie consecutive in casa e fuori. Al timone di questa barca cosmopolita (con calciatori di 17 nazionalità -e lingue- diverse) Luciano Spalletti, l’allenatore dalla furbizia contadina e dal gioco redditizio, d’esperienza internazionale, venuto nella città dei miracoli a compiere il suo capolavoro assoluto, al secondo anno di permanenza (già l’anno scorso aveva sfiorato l’en plein, con un mese d’aprile di tregenda, finendo terzo). Crocevia di culture secolari e importante metropoli marittima, Napoli si specchia nella sua squadra di calcio, impegnata a raggranellare simpatie worldwide, tra sponsor coreani (Upbit, una società di scambio di criptovalute) e globali (Amazon, Armani, Msc).

PURO SANGUE
E anche il suo proprietario, gran produttore di film e cinepanettoni, ha fatto colpo sulla stampa internazionale tanto che il Financial Times ha titolato un suo ritratto «From Hollywood to Scudetto», ricordando pure che dai dati Transfermark ha speso più di 800 milioni in queste due decadi al timone avendone indietro un centinaio in meno. Ombroso come un purosangue, dotato di fiuto per gli affari, narcisista assoluto («il vostro Cavani sono io» si permise di rispondere ai tifosi che si lamentavano per la vendita del Matador) e col caratteraccio da uomo solo al comando ha fatto scappare a gambe levate fuoriclasse e mister. E proclama tanta gratitudine anche col bizzoso pelato in panchina, genuflesso all’amore del popolo napoletano, tatuaggio del logo della squadra sul braccio compreso, deciso però a fare Cincinnato, almeno per il prossimo anno. Dal cielo e dal campo la marea azzurra ha invaso scale, vicoli, saracinesche, marciapiedi e le strisce di stoffa colorata e nastri da un balcone all’altro hanno significato la ritrovata unità cittadina, tutti insieme per un obiettivo comune, la vittoria finale con la gioia incontenibile dispensata dalla squadra.Con tenacia e scaltrezza (ma anche qualche iniziale contestazione dei tifosi, preoccupati dei tanti mutamenti nell’equipe), questa stagione sorprendente è stata una marcia trionfale, da gennaio in poi quando il distacco con le avversarie si è tramutato in profondo baratro, con un filotto di vittorie consecutive in casa e fuori.

SUCCESSO SPORTIVO
Stavolta niente riscatto contro il Nord, niente lacrime di Berlusconi, semplice consapevolezza di essere stati più bravi e lungimiranti, per alcune settimane davvero invincibili. Un successo sportivo che combacia col boom turistico e si mette in fila in quella curiosità generale verso la città cresciuta dietro le meraviglie cinematografiche (da È stata la mano di Dio a Nostalgia) e televisive (dai Bastardi di Pizzofalcone a Il mare fuori), le vestigia greco-romane e quelle angioino-aragonesi, il Mann, la Floridiana e Capodimonte, le bellezze paesaggistiche e gli incantati scorci naturali. Insomma il luogo ideale di una vacanza che richiama turisti da mezza Europa. Una capitale del mezzogiorno con una grande voglia di normalità quotidiana seppellita sotto strati di traffico infernale, burocrazia incapace, dispersione scolastica da record, quartieri periferici in degrado avanzato. Leggermente più curato il centro storico, una grande maleolente cuoppo city con quel tanfo di friggitoria più frittelle, sfogliatelle, babà, dolci d’ogni genere volendo tacere della gragnuola di pizze veraci o gourmet. Il futbol affratella e annulla, per poco, le distanze sociali in quel gran calderone popolare dove ognuno porta una bandierina (che spuntano sui balconi di Rozzano, Laurentino, Ealing Broadway, Villeurbanne, Sunnyvale in pratica dovunque ci siano cuori partenopei al lavoro o studio), una trombetta, un copricapo, uno striscione in una festa spontanea, tra esplosioni di allegria, canti e balli e processioni disorganizzate, autentica esultanza collettiva, illuminata da fuochi d’artificio peggio di San Silvestro e fumogeni impressionanti. Persino l’arcivescovo cittadino, monsignor Domenico Battaglia, ricordando la vittoria dello scudetto, ha invitato «a fare gioco di squadra, a recuperare la forza del noi, la bellezza della fraternità», citando pace, solidarietà e giustizia. Del resto, nel territorio dove sacro e profano sono intimamente aggrovigliati, il ritornello della canzone, con Gino Rivieccio, Monica Sarnelli e altri, scritta per festeggiare la vittoria, recita «Anche Dio, se segue il calcio, tifa Napoli».