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Il teatro Regio come palinsensto di arte totale

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Mostre Nei disegni originali dell’architetto Bettoli e nei reportages voluti da Alberto Nodolini «rivive» la macchina scenica ottocentesca, divenuta da subito un catalizzatore di civiltà urbana

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 15 dicembre 2013

C’è stato un tempo, neppure così lontano, nel quale Parma è stata un modello di civiltà urbana e di esperienze culturali uniche. Prima che scellerate politiche di manomissione di edifici o parti della città si verificassero dove hanno fallito «maestri» quali Oriol Bohigas nell’area della stazione ferroviaria e Renzo Piano con l’Auditorium, Parma ha espresso rigore e innovazione nel sapere organizzare la vita dei suoi cittadini dentro il suo denso tessuto edilizio, ricco di straordinarie emergenze monumentali. Una di queste è il Teatro Regio che due mostre raccontano attraverso il suo architetto, Nicolò Bettoli (1780-1854), e con la mostra degli scatti di trenta fotografi chiamati negli anni ottanta da Alberto Nodolini, grafico e sceneggiatore di grande sensibilità e prestigio, al quale si deve l’allestimento di entrambe le esposizioni: la prima alla Pinacoteca Stuard, la seconda a Palazzo Pigorini.

Iniziamo da Il progetto dell’illusione – questo il titolo della mostra che tratta della nascita del Teatro Regio nei disegni di Nicolò Bettoli, a cura di Carlo Mambriani, Stefano Negri e Fabio Stocchi. Bettoli, nominato nel 1816 da Maria Luigia d’Austria primo architetto di corte, è l’interprete dell’affermazione del gusto neoclassico in città e il protagonista di quella renovatio urbis che prende avvio alla metà del XVIII secolo con l’ingresso nella capitale del ducato del francese Ennemond Petitot al quale Bettoli si ispira nelle sue prime opere. Il percorso espositivo, suddiviso in quattro sezioni, inizia con la mise en scène dell’originale tavolo da disegno dell’architetto parmense collocato su un palcoscenico in scala con le quinte dei principali teatri «all’italiana». Nodolini, replicandolo in legno d’abete grazie ad abili e generosi falegnami locali, ne ha intuito la versatilità d’uso ideando l’invenzione scenografica per l’allestimento delle due mostre. In una teca inferiore troviamo i volumi settecenteschi di Enea Araldi, Cosimo Morelli, Pierre Patte e Francesco Milizia, Paolo Landriani, tutti riguardanti l’architettura teatrale. È nel secolo dei lumi, infatti, che superato il modello della sala ellittica seicentesca, si afferma l’impianto «a ferro di cavallo» con diversi ordini di palchetti. Bettoli ne disegna uno nel 1812 per Borgo San Donnino (l’attuale Fidenza), costruito quarant’anni dopo la sua morte, ma andato distrutto. Quando egli si dedica, nel 1821, al nuovo teatro di Parma è quindi ferratissimo sull’argomento. La duchessa lo considera un’opera fondamentale della sua strategia urbanistica, fare della sua Petite Paris una capitale in sintonia con i tempi moderni. L’architettura civile di Maria Luigia si distingue per la sua continuità con l’immagine neoclassica e illuminista napoleonica che la Restaurazione non arresta come dimostrano le opere realizzate durante il suo regno: il cimitero della Villetta, il ponte sul Taro, le Beccherie, nell’area del mercato della Ghiaia, opera anch’essa del Bettoli e demolite nel 1928.

Nel 1821 l’architetto parmense mette mano alla progettazione del Teatro Regio assumendosi così il compito di superare l’obsolescenza dei due teatri esistenti: Il farnesiano Teatro Grande nel palazzo della Pilotta, e quello all’interno del Palazzo di Riserva, anch’esso voluto dai Farnese e ammodernato dal Petitot. La posizione è già decisa dai tempi dei duchi Borbone verso la chiesa della Steccata, sul fianco sinistro della reggia. La sezione centrale della mostra è tutta dedicata ai disegni per lo più inediti del Bettoli, che descrivono con chiarezza le diverse fasi del progetto, ma soprattutto fanno intendere l’importanza del teatro in quanto emergenza urbana qualificata inserita nell’area resa libera con la demolizione di parte del monastero di Sant’Alessandro. «Onestà strutturale» e «funzionalità scenica» sono le prerogative che guidano Bettoli nel comporre un progetto in grado di rivaleggiare con i teatri di Milano, Napoli e Roma. Inaugurato nel 1829 con la rappresentazione della Zaira del Bellini, il Teatro Regio si presenta alla città integrandosi con essa attraverso i cavalcavia laterali per un regolare deflusso di carrozze e spettatori e un prospetto summa dell’eredità dell’antico: il portico ionico, l’involucro centrale con finestre sormontate da una lunetta tripartita, il timpano di coronamento. Il risultato, ottenuto con la collaborazione dell’artista e incisore Paolo Toschi, è un «tempio laico» che si lega alla sobria armonia dell’ambiente urbano circostante come riuscì a pochi architetti nell’Ottocento: Klenze a Monaco o Weinbrenner a Karlsruhe.

La «moderna» complessità del Regio è possibile però afferrarla solo al termine del percorso espositivo: davanti ai macchinari originali per gli effetti speciali – quelli atmosferici innanzitutto –, oppure osservando i disegni della «scena parapettata». Ideata dal Bettoli, in questa speciale scatola decorata poggiata sul palcoscenico prendeva posto l’orchestra durante i veglioni carnevaleschi, quando la platea si fondeva con il palcoscenico per avere la «sala da ballo più attraente e spaziosa della città». Possiamo solo immaginarlo, il Regio, quale macchina scenica dalle veloci e varie configurazioni spaziali che accoglie, oltre il melodramma, gare di scherma e giochi circensi, balli e commedie. A tal proposito rende bene l’idea l’acquarello La prova di un ballo di Vincenzo Bertolotti. L’ultima sezione della mostra, infine, ci racconta dell’alta qualità della decorazione, dell’abilità esecutiva e dell’efficacia della resa illusionistica dei maestri e artigiani decoratori parmigiani. Il Teatro Regio si configura in pratica come una Gesamtkunstwerk, una creazione d’arte totale nella quale una pluralità di artisti convergono per dipingere e decorare ogni superficie visibile: dal sipario (Giambattista Borghesi) ai velari (Giambattista Azzi e poi il Bertolotti), fino all’astrolampo che sotto il duca borbone Carlo III, successore di Maria Luigia, sostituì il lampadario a candele. Ogni azione e invenzione è rivolta a esaltare lo spettacolo nella sua varietà di espressioni non solo musicali, ma di «arte varia» perché il teatro deve essere «occasione privilegiata di incontro e intrattenimento – come scrive Marco Capra in catalogo – e luogo da abitare fino in fondo».

Ma per comprendere l’autentico significato sociale e civile rappresentato dal Teatro Regio di Parma è d’obbligo visitare la mostra Teatro per scelta, a cura di Alberto Nodolini e Paolo Barbaro. Negli anni ottanta Nodolini è art director per le edizioni Condé Nast a Milano: quindi raffinato intenditore di fotografia, oltre che eccellente grafico. Si deve a lui la selezione dei fotografi, conosciuti attraverso la moda, che invia uno dopo l’altro nella sua Parma perché raccontino un aspetto della «vita» del Regio. Il tema è libero e affidato alla sensibilità e alla curiosità del singolo artista. Si ritraggono così le celebrità: direttori di orchestra – Peter Maag di Tato Possenti, Vladimir Ghiaurov di Frank Horvat o Günter Neuhol di Sante D’Orazio – e cantanti «nei camerini prima della prima» di Attila (Roberto Tizzi), alla prova generale di Otello (Wayne Stambler) o di Ubu Re (Paolo Castaldi). Sono però le persone che lavorano nel retro-scena quelle che più di altre ci raccontano la comunità speciale del Regio. Attraverso il loro sapere e mestiere essi perpetuano una tradizione che è l’identità stessa della città. Sono i ritratti dei macchinisti e delle sarte di Piero Gemelli e di Keith Trumbo; dei falegnami e degli attrezzisti di Ettore Moni e di Olivier Maupas; oppure degli orchestrali di Tiziano Magni. Uomini e donne compongono un mondo poliedrico che la mostra restituisce nella sua viva coralità. A questa partecipa il pubblico, diviso tra quello dei palchi e del loggione, conscio del suo ruolo di giudice appassionato come si desume dalle fotografie di Giovanni Ferraguti. Vi fa ingresso anche una specie di «fantasma» fotografato da Cesare Galli: un uomo mascherato con una tuta di apicoltore. In ogni caso resta all’insegna della socialità il legame forte del Regio con la sua città: il dialogo con il tessuto urbano, come testimoniano ad esempio le riprese di Gianmichele Sibella sulla chiesa della Steccata dal cavalcavia; nei suoi drammi, ’raccontati’ dalle immagini di da Carlo Bevilacqua, quando nel 1983 un terremoto ne danneggiò le strutture; infine con le altre realtà dello spettacolo parmense come racconta Maurizio Buscarino con le foto del Gargantua e Pantagruel della Compagnia del Collettivo-Teatro Due. Conoscere la storia del Teatro Regio attraverso i disegni del Bettoli e nell’emozionante raccolta fotografica di Nodolini non può che confermare quanto scrisse una volta Roland Barthes: «scegliere il teatro non è come si sceglie una cravatta al mattino o un film la sera, ma come si sceglie un cibo da cui dipende la nostra vita».

 

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