Cultura

«Il teatro del lusso» come scongiuro dell’invisibilità

«Il teatro del lusso» come scongiuro dell’invisibilitàUn'immagine dal film "I love shopping"

Scaffale Il volume di Samuele Briatore, edito da Marsilio, è una genealogia nel mistero complesso dell’eccedente, nel meccanismo insoluto che separa un bene dal suo valore

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 30 novembre 2023

Le vetrine si moltiplicano. Sono oblò di acquari irraggiungibili, destinati ad essere osservati con gli occhi di un sogno patinato e senza spessore. Dentro quegli acquari si muovono sinuose le élite del lusso, sembrano non conoscere l’affanno di una giornata qualunque. Sembrano non aver a che fare con la nostra mediocre ragioneria sul quanto abbiamo e quanto possiamo spendere. I loro calcoli sono incalcolabili. Perché di fronte allo spettacolo esibito di un pomeriggio speso a sorseggiare spritz sulla vetta più alta della catena che circonda Cortina, conquistata dall’elicottero allegro di amici e servitù, non ci prende un istintivo odio di classe? Il teatro del lusso. Tra storie, sfide e performance di Samuele Briatore (Marsilio, pp. 176, euro 15) è una genealogia nel mistero complesso dell’eccedente, nel meccanismo insoluto che separa un bene dal suo valore: come giustificare i 10 mila euro spesi per una borsa? Senza dubbio non cercandone il valore nel materiale o nella finitura.

C’È QUALCOSA DI PIÙ. Il feticismo delle merci, direbbe qualcuno. Prendere un oggetto e slegarlo dal suo contesto di produzione per farne materia valoriale ancorata a suggestioni, esigenze, capricci tutti satelliti del pianeta dell’ego individuale. Essere diversi da una massa informe che non ha nessun segno di distinzione. Paga la sua povertà al prezzo della sua anonimità. Il lusso come pratica di scongiuro dell’invisibilità. La chiamò «lotta per il puro prestigio» il filosofo della domenica, Alexandre Kojève, che del lusso si occupò anche durante le sue lezioni hegeliane seguite da tipi come Bataille e Lacan. Lusso è anche amore di dissipazione, come dimostra il saggio che ha fatto di Mauss l’antropologo del dono, nella sua funzione di accreditamento sociale. «Etica del dispendio che ha carattere sacro e simbolico insieme e che organizza l’umano dentro una storicità intrinsecamente conflittuale e desiderante».

NON FUNZIONA LA FORMA mortifera del ridimensionamento del desiderio come categoria di fronte agli eccessi che la società del lusso produce in termini di diseguaglianza sociale e climatica. La decrescita come ritorno a un archetipo sacrificale immiserisce la sideralità che i sogni devono avere. Ma sogni di cosa?

Il libro dà conto del movimento della generazione z di lasciare carriere che stritolano il tempo a favore di modelli esistenziali attenti a curare affetti e relazioni. Tra jet privati, auto dai vetri oscurati, insofferenza al tempo che scorre praticata sotto la forma dell’ossessione antiage, viene fuori la melodia funesta dell’horror vacui, l’assoluta insopportabilità del vuoto, spaventoso proprio perché inallenato a raccogliere valore. E viene a noia la condizione perpetua in cui la caccia al lusso rischia di ricacciarci: l’indebitamento come condizione esistenziale. È un tema in cui ci si conforta con quel senso di giustezza che dà da pensare alle intuizioni di Marx, «il regno della libertà comincia là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità». La sovranità su se stessi, la condivisione, muoversi nel mondo senza farlo per il tramite del possesso: al posto del lusso la felicità.

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