L’appuntamento è stasera alle 21 sui canali social del Teatro di Roma (Facebook, Instagram, YouTube) per l’iniziativa #TdRonline dialogano Giorgio Barberio Corsetti e Davide Enia, autore, regista, attore, scrittore palermitano trapiantato a Roma che con il suo ultimo spettacolo, L’abisso, tratto dal suo romanzo Appunti per un naufragio, ha vinto tra i molti premi anche l’Ubu 2019 per il miglior nuovo testo italiano. Un monologo con musica (live) L’abisso in cui si racconta il nostro tempo, quello dei migranti che sbarcano a Lampedusa e che muoiono ogni giorno nel mare, non solo statistiche di numeri e di anonime immagini dei tg ma storie che entrano nella narrazione alla prima persona di Enia, sul palco con forza, intensità, emozione. Ed è come se vedessimo tutto questo per la prima volta.

Di cosa parleranno dunque Corsetti, tra i protagonisti della scena teatrale italiana ora alla guida del Teatro di Roma, e Enia? Dei linguaggi della scena, del gesto, del «cuntu» e, soprattutto, del teatro come materia viva nel presente che oggi inevitabilmente porta alle domande sul suo futuro.

Nella cultura, questa attività adesso «non necessaria», rispetto al cinema, ai musei, alle mostre o alle biblioteche e forse anche ai festival il teatro è quello più messo in discussione dalla pandemia nella sua stessa natura; cos’altro è infatti uno spettacolo se non una condivisione collettiva tra l’interprete e il pubblico necessaria in ogni sua forma, sperimentazione, ricerca scenica? Potrebbe tradursi tutto questo nella distanza dello streaming, e avrebbe ancora lo stesso senso? «Ho ricevuto in questi giorni molte richieste di leggere un brano, una poesia, di fare qualcosa online. Ho sempre detto di no perché il mezzo non è adeguato a quello che è per me il teatro, e lavorare con la rete può funzionare solo se si fa in modo continuo» dice al telefono Davide Enia, citando come esempio riuscito in questa direzione il Tg Casa 40ena di Maccio Capatonda. E aggiunge: «O si fa qualcosa che ha una sua urgenza o si finisce dentro la logica del turbocapitalismo depotenziando un contenuto che è per necessità legato alla sua forma».

L’ipotesi di trasportare il teatro in streaming non ti sembra dunque praticabile? È una delle ipotesi possibili di fronte a un futuro che è molto incerto, che penalizza i luoghi di cultura basati sulla compresenza fisica delle persone.
Il teatro non può essere fatto in streaming perché la sua sostanza è l’incontro tra esseri umani, qualcuno che agisce, qualcun altro che osserva, in un confronto con temi che riguardano la collettività. Per questo si parla di catarsi e di panico. Ci sono altri mezzi con cui arrivare nelle case, la radio è imbattibile in questo per il modo in cui usa il linguaggio dell’immaginazione per antonomasia, l’udito, ma il teatro nasce in quella vibrazione di energia che è, appunto, la relazione tra diverse persone, e spero che in qualsiasi riflessione questo tema non si perda di vista. Forse dovremmo anche iniziare a ragionare su cosa ci manca davvero nel teatro, e su cosa è diventato, troppo spesso purtroppo alcune attività umane antiche sono state svilite, trattate con poca cura. Nel caso del teatro hanno prevalso le logiche dei calendari, la mancanza di ricerca, di cura, la mortificazione organica al potere, una politica di prezzi folle. E allora la situazione che stiamo vivendo può essere utile a mostrare quanto invece è urgente il teatro anche in questo presente per la sua dimensione di universalità. Se si avrà una risposta a questo si troverà anche il modo di fare teatro, di ripensare ciò che è uno spettacolo e il suo pubblico.

La pandemia che tutto il mondo sta vivendo ha messo in luce in modo netto i limiti conosciuti ma ignorati del nostro modello politico, sociale, economico basato sulla precarietà diffusa e sullo smantellamento di ogni welfare. E il rischio è che il «dopo» ci riservi scenari ancora peggiori.
Si è prodotto un improvviso svelamento, la pandemia ha mostrato la forbice che c’è tra ricchi e poveri, questi ultimi lasciati morire perché non ci sono posti in terapia intensiva. E ha evidenziato anche molte altre questioni, come quella ambientale. Finché non affronteremo in modo diretto tutto questo non ci saranno soluzioni, sul pianeta siamo tutti ospiti e nessuno si salva da solo. Dovremmo mettere al centro l’interconnessione, la peste ci aveva impiegato dodici anni per arrivare dall’Asia in Europa, questo virus poche ore, il tempo di un volo in aereo. Cosa vuol dire? Che se c’è un conflitto in una parte del mondo o se si inquina e si devasta in un’altra le conseguenze ricadranno pure sul resto. In questo momento stiamo vivendo un’esperienza di confinamento globale, ci aiuterà a avere una diversa visione, delle nuove priorità? Ci servirà questa lezione? Chissà, forse tra due generazioni quei bimbi reclusi e ignorati oggi lotteranno per abbattere il sistema carcerario che rappresenta una squalifica di civiltà in ogni Paese.

I segnali che stiamo vedendo sono però inquietanti, si valuta un aumento delle politiche del controllo come prevenzione del virus.
Il problema della privacy è enorme, se ci pensi ogni dispositivo che usiamo indicizza i nostri movimenti. Possiamo parlare di una mutazione antropologica che ha trasformato l’uomo da animale sociale a consumatore ma ben prima del virus, e tra poco la libertà potrebbe diventare un bene di consumo come gli altri.

In un paesaggio di così grande incertezza, conflitti, inquietudini un teatro capace di essere presente confronto nella propria realtà potrebbe diventare uno strumento di riflessione prezioso.
Ma riflettere è doloroso! E poi quanti dopo tutto questo ne avranno voglia? La reazione più umana è quella di voler dimenticare. È anche vero che ci sarà bisogno di emozioni e per questo, per lavorarci bene ci vogliono tecnica, progetto, ripensamento che possono anche essere molto duri. Il teatro se esisterà ancora è fatto da lavoratori: ma come si riusciranno a mettere in piedi le produzioni, come si possono immaginare le tournée? In che modo si potranno costruire i lavori? Uno spettacolo come L’abisso creava una comunità ma in regime di separazione quanto cambierà ogni spettatore? Ci saranno ancora energie creative? Queste e tante altre domande sul rapporto col pubblico e sul modo di lavorare sono un po’ il nucleo del teatro, valgono sempre, e adesso di più ma qualsiasi ipotesi per ora lascia il tempo che trova, non sappiamo quando e se si ricomincerà e quali saranno le condizioni economiche che ci attendono. Una cosa però l’abbiamo capita bene, ogni previsione umana è assolutamente fallace.