Il tavolino di lavoro di Enrico Palandri, ponte verso l’esterno e incontro con l’altro
Apprestandosi a leggere una pagina web, si viene spesso avvisati che la lettura chiederà un certo numero di minuti. Si dà il caso, però, che quantificare con precisione il tempo necessario alla lettura sia di fatto l’opposto di quello che succede quando si ha a che fare con un testo letterario, che invece costringe all’indugio. Di fatto è impossibile prevedere quanto tempo occorra per leggere Sette finestre (Bompiani «PasSaggi», pp. 130, € 13,00), in cui Enrico Palandri schiera di nuovo in battaglia alcuni suoi scritti, con l’intento dichiarato di aprire varchi nuovi al proprio sguardo. La densità di queste pagine impone dunque frequenti rallentamenti: il lettore si trova indotto a tornare ad antiche letture, a connettere elementi anche distanti e infine a porsi domande imperiose sul proprio essere al mondo, sull’atto del formulare pensieri e patire passioni ed emozioni.
Palandri ha sempre lavorato alla ricerca delle relazioni tra i fenomeni per arrivare al punto, espressione che implica sottigliezza e capacità di penetrazione, proprio l’ambito semantico del pungere. Una disposizione che lo ha portato di recente a tornare a precedenti romanzi per tirarne le fila secondo criteri che nel frattempo si erano precisati diversamente. L’esito si è concretizzato ne Le condizioni atmosferiche.
Il punto qui consiste in un esercizio di riflessione su un passaggio, dal chiuso all’aperto, nell’intenzione esplicita di trapassare una frontiera, un muro, una lingua, entità compatte destinate a separare, ma che per loro stessa natura invocano il varco, la traduzione, l’irruzione dell’imprevisto. Condizione che lo scrittore (che vive parte dell’anno in Inghilterra ed è docente di Letterature comparate e traduttore) esperisce in prima persona.
Le finestre evocate dal titolo sono dunque l’immagine parlante della volontà di aprirsi a orizzonti ulteriori perché l’occhio possa conseguire un diverso punto di vista. La consuetudine antica di Palandri nei confronti di Leopardi fa ritornare al celebre passo dello Zibaldone, quando da una «finestra» o una porta, ovvero di fronte a «una veduta ristretta e confinata» insorgeva nel poeta fin da fanciullo l’immaginazione e il desiderio dell’infinito. Quelle finestre da cui Giacomo entrava nel mondo di fuori erano rimaste invece chiuse per Monaldo (che, ad esempio, si rifiutò di affacciarsi al passaggio di Napoleone a Recanati) e per la sorella Paolina, cui la madre negava anche quel minimo svago.
L’infinito, cui l’autore ha dedicato qualche anno fa il volume Verso l’infinito, si presenta in queste pagine nella forma dell’aperto, la condizione cui Rilke si riferisce nella celebre ottava elegia e alla quale la poesia e la letteratura per loro natura espongono. L’aperto evocato da Palandri è una dimensione da cui ci si è allontanati e a cui si torna nell’incontrare e riconoscere il dio nella parola. Il primo di questi saggi dall’eloquente titolo I racconti e gli dèi svolge un discorso limpido e stringente per resa linguistica, ma anche fortemente perturbante: vengono posti sul tavolo della discussione elementi e testimonianze su una serie di fondamentali: la natura del linguaggio, la facoltà del libero arbitrio, la capacità di comprendere ciò che accade. Il non capire si concretizza nella forma della «circumambulazione del sé», nel girare intorno e dunque nella rinuncia alla linea retta. Il principio, formalizzato da Jung e ripreso dal suo seguace più celebre, James Hillman, trova qui attuazione: finché è prigioniero di un particolare punto di vista e pretende di ‘capire’, l’essere umano non è in grado di riconoscere l’autonomia e la realtà degli dèi, cioè delle strutture sovraindividuali che lo governano. Rinunciare a capire e riconoscere che come gli eroi omerici siamo nelle mani degli dèi ne è il coraggioso postulato. Non si tratta di un’abdicazione del critico, ma dell’assunzione di un’investitura di più alta responsabilità. Il critico si espone alla parola e al gesto dell’altro, incontra non il familiare (io spiego tutto, mi sovrappongo al testo e chiudo il cerchio), ma il non-familiare, il negativo (ciò che non so e non comprendo, la negative capability keatsiana), l’indicibile per eccellenza.
Cruciale, nelle pagine de Il tempo nella letteratura, il riferimento a de Santillana, cioè a colui che ha riaperto una strada dimenticata investigando le radici e le ragioni del tempo e restituendo lo statuto di sovranità allo strumento primordiale che ha portato le acquisizioni più antiche a depositarsi in miti, favole, racconti, le cui parole e il cui suono hanno attraversato i millenni per giungere fino a noi, mutili ma ancora atti a parlare.
Da notare, infine, il motivo del tavolino di lavoro, ponte tra lo scrittore e l’esterno, via d’uscita dal ‘chiuso’ e spazio d’incontro con l’altro, ma anche avamposto da cui protendersi verso l’aperto: «Utilizzo Livingstone come un magnete per questi frammenti, spero assorba l’incoerenza che circonda il mio tavolino». Conrad scrisse di aver voluto portare dalla sua prima vita, di capitano di navi, alla seconda, di scrittore, ovvero dai ponti delle navi allo spazio più circoscritto della propria scrivania, il suo sé più fondo. In questo consisteva il suo lavoro, il «good service» reso, anche se ciò implicava una immedicabile imperfezione, la stessa che Palandri diagnostica a se stesso, ma che tuttavia resta quanto di più onesto e responsabile possa chiedersi a uno scrittore.
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