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Il tatuaggio e la rete

Divano Perché io, che ho sedici anni, o io, che ne ho poco più di venti, studentessa o apprendista, a Varese, a Roma, a Messina, oggi mi tatuo?

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 19 agosto 2016

Nella nota precedente, «Io sono il mio tatuaggio», ho provato ad accostare argomenti che riguardano il tatuarsi (del perché mi tatuo) e non ho ritenuto, invece, di soffermarmi a descrivere e commentare le tipologie, le provenienze, gli stili e le tradizioni delle figure che, così diffusamente, vediamo riportate impresse sui corpi. Penso a corpi di adolescenti. Perché io, che ho sedici anni, o io, che ne ho poco più di venti, studentessa o apprendista, a Varese, a Roma, a Messina, oggi mi tatuo?

Alla domanda ho creduto di poter formulare (o ipotizzare) una prima, forse provvisoria, ma certo parziale, risposta. Essa vuol essere compilata in rapporto al ventenne per il quale i riferimenti (di ordine spaziale e di ordine temporale) intrattengono relazioni deboli ed evanescenti con l’ora dell’orologio e il luogo di residenza. Al ventenne, alla ventenne che dica: nella mia giornata c’è la fermata dell’autobus, c’è la scuola, c’è la pizzeria, c’è la casa dell’amico. Ma la città svanisce: ne attraverso le strade e le piazze e non mi chiedo perché esse portino quei nomi – Amba Aradam; Filippo Turati; Gentile da Fabriano – quali avvenimenti del passato si evochino con certe date – quattro novembre; ventuno aprile; venti settembre.

La città non è un centro per me. È uno spostarsi, è un attraversare. È che il mio tempo e il luogo delle mie corrispondenze partecipate e costanti io li apro digitando. Digitando in piazza Gentile da Fabriano accendo cieli, mari, volti, parole. Provo e trasferisco ad altri emozioni vere che alimento di pensieri aderenti a immagini preparate che io riformulo. Compongo frasi a chiave o elaboro convenzioni grafiche. Un numero limitato, ma non equivocabile: mi piace; respingo; indifferente. Così entro nella corrente e mi abbandono.

La nota precedente suggeriva che questa persistenza virtuale, che è condizione dell’intero arco della mia giornata, non solo affianca movimenti, sentimenti, incombenze quotidiane e doveri, ma li afferra e imprime loro le coerenze del suo ordine onnilaterale, dei suoi codici globalmente partecipati. E doveri, incombenze, sentimenti, movimenti uniforma, omologa nella convenzione che, una volta acquisiti, li rende permanenti. Ovvero: in ogni momento tu puoi “accenderli”. La certezza di permanenza e indelebilità (cioè di continua presenza della tua individualità nel virtuale) rivela – pare a me – più di un punto di contatto con quanto consideriamo sia racchiuso in un tatuaggio.

Permanente e indelebile, il tatuaggio consegue un accrescimento della tua identità e, quasi, la sancisce quale tu hai liberamente inteso, con quel segno, affermarla ed esibirla. Come, immesso nello scorrere perpetuo, attraverso le reti dei social vengo individuato e riconosciuto, così col tatuaggio mi identifico, garantendo una consistenza sicura al mio corpo. Hai, dunque, da questo punto di vista, la sensazione di una reciproca compatibilità che induce a collegare, nel nostro ragionamento, quanto, in via subliminare, possa conferirsi di consentaneo a l’”essere” tatuato e a l’”essere” in rete. Così come il tatuarmi è un acquisire me a me stesso quale vengo riconosciuto dagli altri, allo stesso modo è in rete che io mi realizzo, proprio perché vengo registrato, accolto nelle globali moltitudini là dove solo è possibile che io e gli altri assistiamo alla replica continua di noi stessi.

Cade qui opportuno, forse, un richiamo ad una terza modalità dell’”essere presente” che afferisce alla correlazione di tatuaggio e rete. Alludo al “selfie”, attestazione della mia presenza in occasioni eccezionali, accanto a donne e uomini famosi.

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