Italia

Il Tar: «Quel soldato si è ammalato in Iraq con l’uranio impoverito»

Il Tar: «Quel soldato si è ammalato in Iraq con l’uranio impoverito»Iraq 2004, Nassiriya, soldati italiani

Guerra Ha il cancro: il tribunale del Piemonte riconosce la causa di servizio. Storica sentenza: non toccherà più ai militari mostrare il nesso tra uso dei proiettili e patologia

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 24 marzo 2015

Bosnia, Kosovo, Afghanistan, Iraq: le bombe all’uranio impoverito piovevano dal cielo sganciate dagli aerei Nato. Uccidevano e continuano a uccidere, lentamente; nelle vittime, i problemi clinici possono emergere diversi anni dopo l’esposizione. Ne sanno qualcosa i tanti soldati dell’esercito italiano ammalatisi dopo le missioni all’estero, a cui è stata negata la causa di servizio. Ora, una sentenza del Tar del Piemonte sconfessa il ministero della Difesa e dà loro ragione. I militari che sono stati esposti all’uranio impoverito hanno diritto al riconoscimento della causa di servizio se si ammalano di patologie correlate.

Non toccherà più a loro dover dimostrare la relazione tra missione e malattia, ma al ministero produrre prove scientifiche della mancanza di nesso tra causa di servizio e patologia. La storica sentenza del Tar riguarda un soldato di 32 anni, che ha lavorato – da aprile a novembre 2006 – in Iraq, a Camp Mittica, la base italiana alle porte di Nassiriya. In quei sette mesi, senza nemmeno un giorno di licenza, aveva partecipato alle attività di bonifica di aree contaminate da uranio impoverito, senza indossare idonee protezioni. Inoltre, durante le esplosioni, il giovane, insieme ad altri colleghi, era costretto a rifugiarsi per ore all’interno di piccole strutture, senza adeguato riparo dalle polveri sottili sprigionate dagli armamenti all’uranio.

Successivamente, dal 20 luglio 2008 al 18 febbraio 2009, il militare è stato impiegato nella squadra “disinfettori” tra Libano e Israele, infine ha svolto le mansioni di radiofonista a Beirut. Cinque anni dopo il rientro a casa, nel 2014, gli è stato diagnosticato un grave tumore maligno al pancreas. Ha iniziato un programma di chemioterapia, a cui è tuttora sottoposto. L’uomo, scoperta la malattia, ha presentato domanda per il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio, ma il ministero glielo ha negato, sostenendo che non vi fossero legami tra malattia e missioni.
Il trentaduenne si è visto così decurtare lo stipendio per le assenze fatte a causa della chemioterapia ed è arrivato anche a rischiare il posto di lavoro.

Si è rivolto al Tribunale amministrativo che, due giorni fa, gli ha dato ragione. I giudici della prima sezione del Tar impongono, ora, al ministero della Difesa di rivalutare la decisione. «Il parere impugnato che ha escluso il nesso eziologico fra la grave infermità e il servizio – si legge nella sentenza – non fa alcun cenno a dati recenti e indagini sulla materia. Dati e risultati che hanno portato il legislatore a riconoscere l’esistenza del rischio specifico. Poiché è impossibile stabilire, sulla base delle attuali conoscenze scientifiche, un nesso diretto di causa effetto, è sufficiente la dimostrazione, in termini probabilistico-statistici del collegamento tra l’esposizione all’uranio impoverito e la malattia». Il ministero dovrà rivedere l’istanza presentata dal militare alla luce dei dati statistici, ritenuti sufficienti per dimostrare che ci sia nesso tra tumore e missione.

Il verdetto apre uno spiraglio per gli oltre duemila soldati affetti da tumore dopo essere stati esposti a radiazioni di uranio impoverito. Militari ammalati a cui non viene riconosciuto lo stato di servizio dal ministero della Difesa e che, in prima istanza, si vedono quasi sempre respingere le loro domande.

I primi casi segnalati in Italia di ammalati a causa dell’uranio impoverito risalgono al 1999 quando un militare cagliaritano, Salvatore Vacca, morì di leucemia al ritorno della missione militare in Bosnia-Erzegovina. Nel 2001 Carla del Ponte, allora a capo del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, affermò che l’uso di armi all’uranio impoverito da parte della Nato avrebbe potuto essere considerato un crimine di guerra. Pochi anni fa arrivò agli onori delle cronache la drammatica storia di Salvo Cannizzo, ex marò morto nel 2012 per un tumore al cervello. Entrò in contatto con l’uranio impoverito in Kosovo. Prima di morire denunciò la sua condizione e quella dei duemila militari italiani abbandonati dallo Stato, senza che venisse loro riconosciuto lo stato di servizio. E accusò le forze statunitense di aver lasciato gli italiani a operare in zone ad alto rischio senza precauzioni, nonostante conoscessero i terribili rischi.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.



I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento