Alla fine la montagna ha partorito il classico topolino. Era iniziata come rivolta dei governi africani contro un organismo capace di perseguire solo gli africani, è finita con la richiesta di uno scudo che possa proteggere se non altro i leader in carica.

Il summit dell’Unione africana che si è chiuso ieri a Addis Abeba doveva sancire il fuggi fuggi, o quantomeno rivedere i rapporti di collaborazione tra le 54 nazioni riunite nell’Ua e la Corte penale internazionale (Cpi), con sede all’Aja. Ma l’unica richiesta ufficiale inoltrata alle Nazioni unite è quella di far slittare i processi a carico dell’attuale presidente keniano Uhuru Kenyatta (la prima udienza è fissata per il 12 novembre) e del suo vice William Ruto (il procedimento a suo carico si è aperto all’Aja lo scorso 10 settembre). Entrambi sono accusati di crimini contro l’umanità per i tumulti che all’indomani delle elezioni del 2007 – quando i due erano su sponde politiche opposte – hanno provocato un migliaio di morti e 600 mila sfollati. Loro si dichiarano innocenti e accusano l’International criminal court (Icc) di prestarsi a un complotto. Gli stessi vertici dell’Ua considerano indebite ingerenze, quando non veri e propri attentati alle singole sovranità, le azioni penali in corso. Quindi, come fa sapere il ministro degli Esteri etiope, Tedros Adhanom Gebryesus, «il vertice ha deciso che il presidente Kenyatta non dovrà comparire in tribunale all’Aja finché le nostre richieste non avranno avuto risposta». Lo stesso Gebryesus, presidente di turno dell’Ua, davanti all’assemblea aveva duramente criticato «il doppio standard praticato dalla Icc nell’applicare la giustizia internazionale».

L’idea di ritirare in blocco l’appoggio alla Corte – sono 34 le nazioni africane che hanno aderito al trattato che la istituiva nel 2002, con il cosiddetto Statuto di Roma – non ha però ricevuto il sostegno necessario. Anzi, voci autorevoli hanno energicamente remato contro, cercando di scongiurare lo strappo. L’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, per esempio, difende la Corte perché sarebbe al momento l’unico organismo in grado di contrastare la cultura dell’impunità nelle politiche africane. Rifiutarne l’autorità quindi sarebbe «un marchio di vergogna». Ancor più netto l’arcivescovo Desmond Tutu, che dal Sudafrica bolla come ipocrite le accuse di razzismo rivolte alla corte. «I leader che la mettono in discussione sono in cerca di una licenza di uccidere, per continuare ad opprimere i loro popoli senza subire alcuna conseguenza». Senza l’ombrello protettivo della Corte, sostiene Tutu, le vittime rimarrebbero «senza volto e senza voce».

Un tentativo di mediazione arriva dalla presidente della Commissione dell’Ua, Nkosazana Dlamini-Zuma, anche lei sudafricana: «La situazione della sicurezza in Kenya continua a essere fragile – ha detto -. Non possiamo assolutamente permettere che il paese faccia marcia indietro, e per questo è necessaria l’attenzione costante dei suoi leader». Quindi di boicottare la Corte non se ne parla, ma va bene chiedere lo slittamento dei processi.

Dunque una misura salva-Kenyatta, di cui beneficerebbe però anche il presidente sudanese Omar al Bashir, accusato di genocidio per il Darfur e contro il quale è stato emesso un mandato di cattura internazionale nel 2009. Resta il fatto che gli otto casi attualmente all’esame della Corte si riferiscono a crimini commessi in Africa. E africani sono tutti gli imputati.