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Il sultano annuncia: «La voce di Dio sono io»

Il sultano annuncia: «La voce di Dio sono io»Hassanal Bolkiah, sultano del Brunei – Reuters

Brunei Lo stato decide di adottare la sharia. Tra le pene previste, lapidazione in caso di adulterio, amputazione degli arti per i ladri, fustigazione per una serie di reati che vanno dall'aborto al consumo di alcolici

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 26 ottobre 2013

Ad annunciare l’adozione nel piccolo e ricco Brunei di una forma di islam quanto più conservatrice, è stato il sultano in persona, Hassanal Bolkiah. Non poteva che andare così nella monarchia del Borneo su cui regna con piglio autoritario e assolutista dal 1967, salito al trono ad appena 21 anni, quando ancora il Paese era un protettorato britannico.

Nel presentare il nuovo codice penale basato sulla legge islamica, il sultano ha detto di stare adempiendo a un dovere verso Allah. «In tutta la sua generosità ha creato la legge per noi, per fare sì che la usassimo per ottenere giustizia», ha spiegato.

Il Brunei opta in questo modo per una maggiore rigidità rispetto a Indonesia e Malaysia, altri Paesi del Sudest asiatico a maggioranza musulmana, dove tuttavia la sharia non è applicata totalmente o lo è soltanto in alcune regioni.

L’introduzione della legge islamica procederà «a fasi», l’entrata in vigore definitiva sarà tra sei mesi. Non che le legge islamica non sia già presente nel Paese dove gli altri credo sono controllati. Le basi di questo irrigidimento risalgono almeno al 1996, quando si iniziò ad abbozzare il nuovo codice. In Brunei vige un sistema duale che alla giustizia civile affianca le corti islamiche, limitate tuttavia a dirimere questioni di eredità e al diritto di matrimoniale. Il nuovo codice varrà soltanto per i musulmani, circa il 70 per cento della popolazione. Tra le pene previste ci sono la lapidazione in caso di adulterio, l’amputazione degli arti per i ladri, la fustigazione per una serie di reati che vanno dall’aborto al consumo di alcolici.

Per Phil Robertson di Human Rights Watch, citato dalla stampa britannica, si tratta di un passo indietro che mostra gli aspetti «più feudali» del Brunei e che richiama alla memoria il modello delle monarchie assolute del 18esimo secolo, oltre a dare via libera al rischio di abusi permessi dalla legge. «Se il Brunei funzionasse come una democrazia e non fosse una monarchia assoluta e autoritaria, ci sarebbero state reazioni a questo», ha aggiunto al quotidiano Guardian.
Forte del riuscire a garantire ai circa 400mila cittadini-sudditi un alto tenore di vita, sfruttando le entrate delle riserve di gas e petrolio, la monarchia è riuscita a consolidare il proprio potere, che dura da 600 anni, e mantenere il controllo dello stato, senza cedere a riforme politiche e e garantendo alla popolazione programmi di welfare. Una politica neo-tradizionalista, l’ha definita lo studioso Naimah Talib nel numero di marzo della Kyoto Review of South East Asia, dedicato all’analisi delle caratteristiche delle quattro monarchie della regione: Brunei, Cambogia, Malaysia e Thailandia. La storia degli ultimi sessant’anni del sultanato dà esempi di questa capacità di accentramento.

Nel 1962 una sollevazione armata contro l’ipotesi di unificazione con la Malaysia fu sfruttata dall’allora sultano Omar Ali Saiffudin III (che abdicherà cinque anni dopo a favore del figlio Hassanal Bolkiah) per dichiarare lo stato d’emergenza. Nel 2004, a vent’anni dall’indipendenza, emendamenti alla legge fondamentale ufficialmente presentati come riforme democratiche, rafforzarono il potere del sovrano. Inoltre reintrodussero il Consiglio legislativo, un tempo almeno in parte elettivo prima della sospensione nel 1984, i cui componenti sono ora tutti di nomina reggia.
L’altro pilastro della legittimazione politica del sultano, come spiega Talib, è l’ideologia della Melayu Islam Beraja, ossia la monarchia islamica malay (gruppo maggioritario tra la popolazione del sultanato). Vale a dire che la casa reale è riuscita a proporre se stessa come protettrice dell’islam. Il sultano non è quindi soltanto una guida politica, ma anche morale. Una pretesa che secondo i critici va a sbattere contro lo stile di vita della famiglia reale, all’opposto della visione austera che sembra trasparire dal codice penale. Il sultano stesso è uno degli uomini più ricchi al mondo, sebbene più che sul suo comportamento ci si concentri su quello del fratello, il principe Jefri, che ha nomea di playboy e già accusato di appropriazione indebita miliardaria quando era ministro delle finanze. Per Ahmad Farouk Musa, direttore dell’Islamic Renaissance Front di Kuala Lumpur, intervenuto a ABC Radio Australia, questo inasprimento ha a che fare con le cosiddette primavere arabe e con possibili ripercussioni sulla leadership del Paese. Il sultano, spiega, si presenta quasi come voce di dio. Per molti commentatori, tuttavia, la durezza delle norme, mal si sposa con lo spirito malay.

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