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Il solido nesso tra razzismo ed economia

Migranti e capitale Molti studiosi hanno messo in rilievo che il razzismo moderno si sia affermato a partire dall’espansione coloniale che sorresse l’emersione del capitalismo europeo

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 13 febbraio 2020

L’immigrazione è il principale strumento usato dalle destre nazionaliste. Ma questi difensori del popolo spesso fanno gli interessi di specifici settori del capitale. Trump ne rappresenta un celebre esempio, ma anche la Brexit riflette simili divisioni tra le élite.

In Italia, queste divisioni vedono contrapporsi il campo utilitarista-democratico, che vuole una parziale emersione del lavoro irregolare dei migranti – che pure segnerebbe importanti passi avanti per quest’ultimi – e quello nazional-populista di chi persevera nella criminalizzazione e nello sfruttamento senza mediazioni. Il razzismo è un fenomeno di gerarchizzazione e naturalizzazione delle differenze a vantaggio del gruppo dominante. Pur senza schiacciare il razzismo alla mera funzione di sfruttamento, molti dati mostrano un solido nesso tra razzismo e economia.

E NON A CASO MOLTI STUDIOSI hanno messo in rilievo che il razzismo moderno si sia affermato a partire dall’espansione coloniale che sorresse l’emersione del capitalismo europeo.

Non è una forma di irrazionalità, un semplice errore egoistico, come vorrebbe far credere Ezio Mauro nella sua recensione al libro di Marco Aime. E ogni razzismo ha una dimensione sessista. In Italia, il processo di marginalizzazione dei migranti va avanti da decenni e si iscrive in una lunga storia di razzismo che ha radici nella rappresentazione delle popolazioni meridionali, nel colonialismo italiano e nell’antisemitismo.

COME GIÀ NOTAVA Laura Balbo nel 1989, l’approccio italiano alle migrazioni è rappresentato dalla frase «volevamo braccia, sono arrivate persone». I migranti servono all’economia e al welfare, ma non devono esistere nella società. La morte sociale – e, di alcuni, nel Mediterraneo e in Libia, fisica – è il destino. La negazione della cittadinanza al milione di persone che sono nate o cresciute qui, ne è solo uno degli esempi più eclatanti.

Quando il ciclo economico cambia, gli stranieri sono i primi a perdere il lavoro e ad essere additati come nemici pubblici. Vite con un valore inferiore, che possono spegnersi nel mare o nei campi nell’indifferenza generale o esser espulse al bisogno. Vite pericolose per gli italiani in quanto tali.

I decreti di Salvini si chiamano Sicurezza invece che immigrazione, perché i termini sono concepiti come antitetici. Vite che possono essere spremute nei lavori più degradanti e con le paghe più basse. Vite utili, che servono. Diversi studi della Banca d’Italia hanno affermato che senza migranti – a cause dei trend demografici negativi e della bassa crescita della produttività – il Pil italiano sarebbe condannato ad un brusco declino. I 2,5 milioni di lavoratori stranieri rappresentano il 10,6% degli occupati e contribuiscono al 9% del Pil (1.765 miliardi di euro). A cui bisogna sommare i circa 620.000 stranieri irregolari (Ispi) – in crescita grazie ai Decreti Salvini – che lavorano nell’economia sommersa (192 miliardi).

DATA LA LORO ETÀ ricevono meno di quanto versano in contributi pensionistici, contribuendo con 3,9 miliardi netti di contributi alle casse dell’Inps.
I settori in cui prevalgono sono anzitutto il lavoro domestico e di cura (il 69% degli occupati sono stranieri, in maggior parte donne) che segnala un enorme problema di welfare e parità dei diritti tra sessi. A seguire c’è l’agricoltura ( un quarto della forza lavoro per Coldiretti), fiore all’occhiello del cd. made in Italy, dove le condizioni di vita e lavoro spesso finiscono sui media, senza che efficaci cambiamenti normativi seguano.

Quindi, ci sono le costruzioni e il lavoro in alberghi e ristorazione (rispettivamente il 17% e il 17,9% degli occupati), e quindi il facchinaggio e i trasporti (11%) e la manifattura (9,4%). Negli altri servizi sono il 36,6% e nel commercio il 7,8. Come si può vedere agevolmente, i settori in cui prevalgono sono quelli in cui la qualifica è più bassa. Ma questo spesso non riflette le effettive competenze dei lavoratori. Secondo il rapporto Istat del 2019, infatti, il 20% degli stranieri laureati occupati «svolge un lavoro a bassa specializzazione (rispetto allo 0,7 per cento degli italiani) e solo il 36,9 per cento una professione qualificata (81,8 per cento nel caso degli italiani)».

PER LE DONNE STRANIERE è ancora peggio. Per loro si pensa che l’unica attività ad esse consona sia il lavoro domestico e di cura. Così da permettere a quelle italiane di entrare nel mercato del lavoro italiano.

Tito Boeri, in un articolo sulla Repubblica del 4 Febbraio, scrive «Con il loro lavoro [degli stranieri] ci permettono di assistere molte persone non-autosufficienti senza impedire soprattutto alle donne di lavorare e generare reddito».

Le donne sono italiane, quelle straniere non contano. Le dinamiche dei salari, del part-time involontario, dei tassi di disoccupazione, della concentrazione nei lavori più faticosi segnalano tutte la stessa cosa.

I lavoratori stranieri vivono in un mercato del lavoro strutturalmente meno tutelato e con salari più bassi di quello a cui accede la maggior parte dei cittadini italiani.

Alcuni studiosi e politici «progressisti» si compiacciono del fatto che la competizione tra lavoratori stranieri e italiani non esista, perché il mercato è segmentato. Balbo notava invece che questa dinamica indichi l’operare di una ghettizzazione strutturale. Di un razzismo istituzionale: la normativa favorisce la marginalizzazione dei migranti. Crea una vera e propria integrazione subalterna come ebbe a definirla Maurizio Ambrosini.

LA SOSTANZIALE CHIUSURA dei canali d’accesso legali – i noti decreti flussi – ne ha accentuato la ricattabilità. La produzione sociale e giuridica dell’illegalità e dell’esclusione favoriscono una maggior sfruttabilità dei lavoratori.

L’assassinio del sistema Sprar e l’abolizione della protezione umanitaria riguardano ciò. Il nesso tra economia e migrazioni non è quello però individuato da chi vorrebbe avvelenare la società e dividere i lavoratori – perché questo sono in larga parte i migranti.

Il nodo andrebbe affrontato come occasione per ricomporre la «parte dei senza parte», per sperimentare nuove forme di cittadinanza oltre lo stato nazione.

L’Europa smetterebbe così di garantire la libera circolazione ai pochi per diventare uno spazio di diritti per i molti. Anche di questo si è discusso nella due giorni del forum «Per cambiare l’ordine delle cose» tra Spin Time e Esc.

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