Visioni

Il sogno negato di un abbraccio nella lontananza dell’esilio

Il sogno negato di un abbraccio  nella lontananza dell’esilio

Locarno 69 In concorso «Correspondencias» di Rita Azavedo Gomes, «I Had Nowhere to Go» di Douglas Gordon tra i Cineasti del presente

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 12 agosto 2016

«Dove sta l’esilio?» chiede il bimbetto agli adulti che guardano le immagini proiettate sul muro del salotto di volti familiari divenuti frammenti di una storia. In esilio lo scrittore portoghese Jorge de Sena (1919-1978) ha trascorso tutta la sua vita, il Brasile, l’America senza mai tornare in Portogallo, una «patria» divenuta ostile, straniera, nemica dalla quale era stato perseguitato e respinto. Il suo unico legame rimarranno le lettere che scambia con la poetessa Sophia de Mello Breyner Andresen (1919-2004), una corrispondenza mai interrotta che sfida la distanza e la nostalgia, in cui le vite si mescolano al tempo che le sovrasta, agli eventi della realtà con la quale sono costretti a misurarsi, che con violenza impone una condizione non sempre scelta. E Correspondencias è il titolo del film di Rita Azavedo Gomes (suo l’irruento La Vengança de Uma Mulher), anche programmatrice e curatrice alla Cineteca di Lisbona, uno dei titoli (come L’Ornitologo di Joao Pedro Rodrigues, lui pure portoghese a conferma della inventiva di questa cinematografia) più seducenti (e meno conformi) nel concorso del Festival di Locarno numero 69 che si chiude domani – giuria guidata da Arturo Ripstein.

Le voci dei due protagonisti si accavallano nelle parole a distanza, entrano con pudore nelle zone più intime dei loro sentimenti: malinconia, impotenza, rabbia, dolore, rassegnazione e soprattutto da parte della poetessa, una resistenza che significa riuscire a essere felici nella vita di ogni giorno. La dittatura di Salazar soffoca lo spirito ma se de Sena da lontano carica di amarezza dolorosissima la sua visione del Portogallo, Sophia de Mello oppone una tranquillità di forza «femminile»: vivere, scrivere nonostante la polizia segreta che spia ogni gesto pure il più banale come sedersi al tavolino di un caffè lanciando avvertimenti sempre più minacciosi: perquisizioni, controlli, sospetto, angoscia. Fino a trasformare quelle lettere in una «prova» di colpevolezza: «Hanno sequestrato le tue lettere» scrive Sophia all’amico a cui racconta anche il suo disagio in un simposio letterario, la paura all’incontro in strada con i militari, la rottura con la famiglia, i genitori, per le sue idee critiche verso il regime. Eppure alla voce di lui che precipita nello sconforto, che per il Portogallo non riesce più a vedere una via d’uscita, lei risponde con lampi di fiducia, imprevedibili e segreti.

Lo scambio epistolare resiste alla sopraffazione, la parola ne sfida i mezzi, lo spazio dell’intimità allarga il suo respiro alla Storia. E su questa tensione lavora anche la regista; la sua non è una «riduzione» o una «rappresentazione» del testo, le immagini ricostruiscono l’universo della parola poetica, entrano nella dimensione familiare, amorosa, complice, la mettono in scena nelle variazioni della sua materia, cercano il conflitto di una dimensione collettiva. Il vissuto, il suo presente dialogano con la memoria e con la presenza tangibile – la parola appunto – di quel racconto.                                             

12Vis2Apertura3

Interni familiari, abbracci impossibili, prossimità nella lontananza, la forza caparbia di un legame che sembra quasi una sfida. La metrica e il flusso del testo costruiscono nelle immagini nuove corrispondenze: gli archivi, le fotografie, Sophia giovanissima e poi vestita di nero sul divano di casa mentre legge una poesia, la voce si rompe nel colpo di tosse che chiude la a gola. Amici, paesaggi, il Portogallo di Salazar, la grana dei filmini familiari. La fantasia impossibile di un abbraccio, gli attori che attraversano lo spazio (tra gli altri Luis Miguel Cintra e Eva Truffaut), il corpo a corpo col testo che compie nuovi detour. L’universo poetico dei due protagonisti si mescola a quello della regista, a una ricerca che ne cerca l’essenza, il vissuto, l’arte nel tempo del cinema.

La stessa scommessa, filmare la parola, è quella che affronta l’artista Douglas Gordon nel suo I Had Nowhere to Go, che è l’incontro tra due artisti, lo stesso Gordon e il cineasta, tra i protagonisti dell’avanguardia americana (mondiale), Jonas Mekas. Il titolo è quello dell’autobiografia di Mekas, pubblicata qualche anno fa, nella quale il cineasta ripercorre l’esperienza della guerra in Lituania, la fuga dai nazisti, la prigionia, i campi profughi, infine l’arrivo in America, e la condizione di «esiliato» con la sua solitudine, tristezza, fatica a trovare un posto per sé. Quella vita che è materia di tutti i suoi film, della quale negli anni ha prodotto variazioni continue, ricerca e sperimentazione, narrazione privata e insieme di un’epoca e dei suoi protagonisti – nei film di Mekas si incontrano Ginsberg, Lennon e molti altri.

Gordon procede all’inverso: l’immagine scompare, rimane uno schermo nero punteggiato da fotogrammi di Mekas o suoi mentre la narrazione è affidata alla voce di Mekas che appare all’inizio e alla fine. Non vediamo nulla, ascoltiamo la sua voce che restituisce il viaggio della sua esistenza. La guerra è un rumore secco di bombe che sovrasta le parole di fame, paura, l’ambizione di filmare i tedeschi e la fuga dalle loro armi. La metropoli americana è il rumore della folla, delle strade che accompagna il racconto della solitudine. E’ questa oralità permette di produrre altre immagini e al tempo stesso trasforma la dimensione personale nel racconto del Novecento.
Il rischio è forse che il dispositivo finisca per assorbire e sovrastare il resto, e in quello schermo scuro (purtroppo illuminato da troppa luce nella sala locarnese dove era proiettato, Gordon ha rifiutato anche i sottotitoli per l’effetto nero totale) la parola non riesce a trovare un suo spazio di libertà.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento