Cultura

Il sogno dell’accesso universale al sapere

Il sogno dell’accesso universale al sapere

Didattica online La spinta verso un'istruzione dematerializzata si è condensata in una sigla misteriosa, Mooc (lezioni aperte di massa su Internet, gratuite). Ma le varie piattaforme si stanno rapidamente riciclando, fungendo da agenzie per le università tradizionali

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 13 gennaio 2019

Le profezie sull’impatto di Internet sulla scuola non mancano e di solito si presentano sotto forma di terremoti, rottamazioni, attentati dinamitardi. Nel suo ultimo saggio The Game, ad esempio, Alessandro Baricco scrive «le prime cose che andranno al macero, dritte dritte, saranno la classe, la materia, l’insegnante di una materia, l’anno scolastico, l’esame. Strutture monolitiche che vanno contro ogni inclinazione del game».
Il «game», se fosse sfuggito a qualcuno, è il nostro attuale modo di vivere con lo smartphone perennemente in mano, in cui ogni attività (dalle chiacchiere alle corse in metropolitana) prende le sembianze di un videogioco, o si estingue.

UNO DEI FATTORI che avrebbe dovuto far esplodere le aule scolastiche è proprio la didattica online: perché obbligare maestri professori e alunni a frequentare edifici fatiscenti intitolati a lontanissimi eroi risorgimentali per imparare la matematica e l’italiano, quando si può fare da casa (o dalla metropolitana) grazie al suddetto smartphone? I vantaggi sono evidenti. Per i docenti, basta con la monotona ripetizione di lezioni che possono essere videoregistrate una volta per tutte (ma forse basta anche con lo stipendio). Per gli alunni, addio a sveglie all’alba, interminabili seste ore e bagni senza carta igienica.
Nell’ultimo decennio, questo desiderio di un’istruzione che si dematerializza si è condensato in una sigla misteriosa: Mooc. Sta per «Massive Open Online Courses», cioè Lezioni aperte di massa su Internet. Con questa sigla si indicano i corsi organizzati dagli atenei di tutto il mondo e che possono essere seguiti a distanza, basta disporre di una connessione a Internet. Se a qualche lettore viene in mente il mitico «Progetto Nettuno», quello dei corsi televisivi di ingegneria meccanica all’una del mattino di tanti anni fa, è sulla buona strada. Solo che adesso, grazie a Internet, si può imparare gratis a progettare una trivella seduti sulla tazza con un tablet sulle ginocchia, ricevendo pure un «certificato di frequenza». E con poche decine di euro in più, i test online verificano le competenze apprese e forniscono un vero diploma in formato pdf.

QUESTE LEZIONI sono offerte ormai da moltissime università in tutto il mondo, dalla Sorbona a Berkeley, dall’Università di Hong Kong alla Sapienza, più le tante aziende e enti no-profit del settore educativo. Già nel medioevo, i sapienti avevano capito che unire tutti gli insegnamenti in un unico posto poteva facilitarne la fruizione e inventarono le università. La stessa cosa avviene online: i Mooc sono riuniti in poche «piattaforme» digitali, che si chiamano EdX, Coursera o Emma, il portale messo su dall’Unione europea per fare concorrenza agli americani.

LE UNIVERSITÀ statunitensi sono partite prima, avvantaggiate dalla lingua inglese. D’altronde, se un docente del Mit di Boston si mette a spiegare microeconomia su Internet, troverà milioni di studenti interessati in Cina, India, Sudafrica. Ma oggi anche le università europee sono ben presenti sul web. Attenzione: non stiamo parlando di «università telematiche», come ce ne sono molte già in Italia. Lì ci sono lezioni online, ma poi all’università ci si va davvero per fare gli esami e parlare con i tutor, e l’iscrizione costa anche più che in un’università tradizionale. No: i Mooc sono tendenzialmente gratuiti, non ci sono corsi di laurea, il docente lo si vede solo sullo schermo e non c’è alcun bisogno di muoversi da casa.
Quando la fondatrice della piattaforma Coursera, Daphne Koller, si presentò nel 2012 parlò di «accesso universale all’educazione»: per la prima volta, avrebbe dato la possibilità a chiunque, indipendentemente dalle risorse economiche, la possibilità di accedere a un’istruzione di alta qualità. Una cosa molto simile alla rivoluzione, bisogna dire. Ha funzionato? Se lo sono chiesto anche Justin Reich e José A. Ruipérez-Valiente. I due studiano i sistemi di istruzione telematici per il Mit di Boston dov’è stata fondata EdX, una delle piattaforme più popolari per seguire corsi online. Reich e Ruipérez-Valiente hanno analizzato i dati sulle iscrizioni e sugli esiti dei corsi disponibili su EdX dal 2012 al 2018.

I RISULTATI della loro analisi sono pubblicati sull’ultimo numero della rivista Science. L’enorme base di dati, quasi sei milioni di studenti virtuali per un totale di dodici milioni di iscrizioni ai corsi, potrebbe suggerire che la rivoluzione è in atto. Ma se si approfondisce, si scopre che gli iscritti hanno raggiunto un picco nel 2016 e da due anni sono in calo. Inoltre, il 52% degli iscritti ai corsi non inizia nemmeno a seguirli. Molti di loro, in effetti, si iscrivono giusto per dare un’occhiata. Degli altri questi, secondo una ricerca precedente dello stesso Reich, poco più del 10% arriva in fondo al corso. In totale, circa il 5% degli iscritti completa i corsi. Anche l’obiettivo di superare le barriere globali sembra fallito. L’80% degli iscritti alle lezioni online proviene dai paesi con un Indice di Sviluppo Umano «molto elevato» secondo la classificazione Onu. Gli iscritti dai paesi meno sviluppati sono solo il 2-3%.

Fallito l’obiettivo della rivoluzione didattica, spiega Reich, le varie piattaforme si stanno rapidamente riciclando e stanno entrando nello stesso segmento delle «università telematiche». Sempre più spesso fungono da agenzie a cui le università tradizionali esternalizzano la didattica a distanza a pagamento, con buona pace della gratuità e del divario globale. In effetti, le loro potenti infrastrutture digitali consentono di abbattere i costi per le università intenzionate a virtualizzarsi. E il sogno del sapere universale sbiadisce nella logica del subappalto.

 

NOTIZIE BREVI DI SCIENZA

Onde radio dal cosmo

Il telescopio canadese Chime (Canadia Hydrogen Intensity Mapping Experiment) ha rilevato 13 lampi veloci di onde radio. Si tratta di radiazioni elettromagnetiche molto brevi provenienti dal cosmo di cui gli astrofisici non conoscono ancora l’origine. Secondo gli astrofisici che hanno pubblicato la scoperta sulla rivista Nature, si tratta di segnali provenienti dallo spazio esterno alla Via Lattea, la galassia a cui appartiene anche il Sistema Solare. Un simile segnale dovrebbe essere generato da oggetti di grande densità, come i buchi neri. Il telescopio è riuscito a rilevare anche lampi ripetuti, cioè provenienti dalla stessa regione del cielo. Si tratta di un evento raro che potrebbe rivelarsi decisivo nel capire la sorgente delle radiazioni. Potrebbe trattarsi di un oggetto cosmico ancora sconosciuto. L’ipotesi che provengano da una civiltà extra-terrestre, molto suggerita dai media, è in realtà solo un’invenzione giornalistica.

 

L’oceano è sempre più caldo

Il 93% del calore accumulato dall’atmosfera (effetto serra) viene assorbito dagli oceani e ne causa il riscaldamento. Una ricerca pubblicata su Science da un team di ricercatori cinesi e statunitensi rivela che dal 1991 a oggi il tasso di riscaldamento degli oceani è raddoppiato rispetto ai decenni precedenti. Dato che il riscaldamento dell’acqua ne provoca la dilatazione termica, gli scienziati prevedono che il livello degli oceani nel 2100 sarà 30 cm superiore a quello attuale in assenza di politiche climatiche efficaci. A questo innalzamento bisognerà sommare quello dovuto al riversarsi nel mare dell’acqua contenuta nei ghiacciai terrestri.

 

Crispr per i nuovi antibiotici

La tecnica di modifica genetica Crispr è stata adattata in modo da capire quali siano i meccanismi su cui agiscono gli antibiotici. La variante, denominata Mobile-Crispri, non serve a modificare, ma a «spegnere» i geni che codificano la produzione delle proteine nei batteri. L’azione degli antibiotici è mediata proprio dalle proteine, ma non sempre è chiaro il meccanismo di azione. Annullando selettivamente la produzione delle proteine e osservando la variazione dell’effetto dell’antibiotico, si può scoprire qual è la proteina responsabile dell’azione del farmaco. Chiarire questi meccanismi potrebbe aiutare a sviluppare nuovi antibiotici. Quelli attualmente a disposizione risultano sempre meno efficaci a causa della crescente resistenza sviluppata dai batteri più comuni. La scoperta, realizzata dai biologi dell’università di Madison (Wisconsin, Usa) è stata pubblicata dalla rivista Nature Microbiology.

 

 

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