Ciascuno di noi ha un luogo con il quale ha stretto un particolare legame in cui si intrecciano vicende biografiche, affetti, impegni intellettuali e lavorativi, e dove si continua a tornare periodicamente riscoprendo, ogni volta, quanto questo legame sia saldo e profondo. Nello straordinario palcoscenico della regione dell’antica Etruria, frequentato ormai da molti decenni e dove gli impegni professionali e la curiosità intellettuale mi hanno portato in molte delle sue contrade, da Populonia a Orvieto, da Volterra a Roselle, da Chiusi a Massa Marittima, da Pisa a Murlo nel Senese, a Fiesole, Tarquinia è per me il luogo del cuore, dove a ogni ritorno si rinnova e si rinsalda quel legame.
Tarquinia, l’etrusca Tarchna, una delle principali realtà dell’Etruria fin dagli inizi del IX secolo a.C., ovvero fin da quando gli stessi Etruschi facevano iniziare la propria storia; il centro dove attorno alla metà del VII secolo a.C. giunse da Corinto Demarato della potente stirpe dei Bacchiadi e, sposata una donna dell’aristocrazia locale, divenne padre di Tarquinio, il primo re etrusco di Roma; Tarquinia, la patria di quegli Spurinna, Velthur e Aulo, dei quali alcune epigrafi in latino della prima età imperiale rinvenute sulla Civita presso l’Ara della Regina, ricordano le benemerenze e le imprese.
Tarquinia, la città che, poco meno di sei chilometri dalla costa tirrenica, si stendeva sul lungo pianoro del colle della Civita a dominare la bassa valle del Marta, l’emissario del lago di Bolsena, che sfocia in mare immediatamente a nord della città. Attorno alla Civita, sui poggi a corona dei fianchi settentrionali e orientali e sul lungo e parallelo colle dei Monterozzi, che dopo una piccola vallecola separa la città dal mare e dove all’estremità occidentali sorge la medievale Corneto e la città moderna, si sviluppano le aree sepolcrali. Qui sui Monterozzi, dal Calvario, la zona più prossima alla cittadina attuale, fino alla Provinciale che dall’Aurelia si dipana verso Monteromano e da lì a Viterbo, le famose tombe dipinte che hanno reso familiare il nome di Tarquinia nell’immaginario collettivo, tanto che anche un artista come Andy Warhol nelle sue scorribande iconografiche della tarda stagione vi si accostò rivisitando l’arcaica Tomba delle Leonesse (Etruscan Scene, 1985, Collezione Carlo F. Bilotti).
A Tarquinia giunsi la prima volta sul finire degli anni settanta in un pomeriggio di fine maggio per studiare una serie di sculture a rilievo di età alto arcaica, che costituivano l’argomento della mia tesi di laurea. Accolto nei penetrali del Palazzo Vitelleschi, all’epoca assai meno ordinati e rutilanti di quanto il più recente allestimento del Museo Nazionale tarquiniese squaderna oggi al visitatore, dopo aver compiuto una sorta di pellegrinaggio rituale nella sala dove erano esposti i celebri Cavalli – capolavoro assoluto della scultura in terracotta di età tardoclassica dell’intero Mediterraneo – e il resto più nobile della decorazione frontonale del grande tempio dell’Ara della Regina che con i suoi monumentali ruderi domina la Civita dal lato della vallecola del fosso di San Savino, venni ricevuto da un anziano custode, Romeo Ciuferri: l’uomo a cui erano affidate le chiavi dei magazzini e autorità suprema e indiscussa del piccolo cenacolo delle maestranze del museo. Rinviando al giorno dopo il lavoro nelle segrete, Ciuferri mi consigliò di andare subito alla Civita e di respirare l’aria di quella contrada che – ne era sicuro – mi avrebbe chiarito molti dei quesiti sugli Etruschi di Tarquinia che agitavano i miei pensieri.
Percorsa la strada che da Tarquinia, fiancheggiando le mura medievali, si spinge lungo i Monterozzi (un consiglio: ancor oggi, all’altezza del cimitero, si prenda la via interna, più stretta e meno rettilinea, ma molto più seducente per le prospettive che attraversa), giunsi così ai Secondi Archi, parte dell’imponente fabbrica dell’acquedotto settecentesco, e qui mi si presentò quello straordinario paesaggio che tanta ammirazione aveva destato a D.H. Lawrence nel 1927 (Etruscan Places, cap. III).
Il piano dell’antica città coperto da una distesa di asfodeli e foreste in miniatura di ferule ondeggianti per il vento, mentre sui costoni si infittivano piante di lentischio, di mirto, di corbezzolo e di olivastro, i cui colori erano dorati dal sole non più alto nel cielo. Dopo la fine della città antica, abbandonata al passaggio tra V e VI secolo, quando i suoi abitanti si trasferirono a Corneto, nessun intervento dell’uomo aveva alterato quest’area, se non con i modesti segni di una economia fatta da umili pastori e piccoli contadini.
Su tutto un silenzio quasi irreale, che dai Monterozzi, la città dei morti, si stendeva sull’intero paesaggio e che nella mia mente aveva i toni screziati dell’adagio del quintetto in do maggiore di Schubert.
Al di là della superba bellezza di quegli orizzonti, fui profondamente colpito dall’odore acre che si alzava dalla terra, lievemente addolcito dal salmastro che un soffio di maestrale trascinava verso l’interno, e quasi mi stordiva. Un profumo dal carattere assai personale, esclusivo di Tarquinia, che ancora oggi sento, passata la foce del Marta, non appena comincio a vedere il profilo della chiesa di Santa Maria in Castello e delle torri della città medievale. Erano certamente questi l’aria e gli odori che su quel medesimo palcoscenico, non molto cambiato da allora, avevano avvolto il prodigio di Tages, il fanciullo dai capelli bianchi, scaturito da una zolla sollevata dall’aratro per rivelare l’etrusca disciplina, gli insegnamenti relativi alla divinazione, a Tarconte, mitico fondatore di Tarquinia e dello stesso nomen Etruscum.
Una suggestione che non mi ha più abbandonato e che si riaffaccia prepotentemente anche lontano da quei luoghi, quando, seduto al tavolo di studio o in biblioteca, lavoro su qualche argomento tarquiniese. Ciuferri aveva visto giusto.