Cultura

Il silenzio obbligato della vergogna

Il silenzio obbligato della vergognaUn’opera dell’artista siriano Tammam Azzam

Intervista Parla lo scrittore di Aleppo Khaled Khalifa, che oggi sarà al teatro Parenti di Milano, in dialogo con Wlodek Goldkorn, per presentare il suo libro «Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 28 marzo 2018

Il romanzo della vita reclusa, prigioniera della violenza ma anche dei mille imperdonabili compromessi cui una dittatura obbliga gli individui che opprime. Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città (Bompiani, pp. 288, euro 18), racconta attraverso le vicende di una famiglia di Aleppo la genesi e il consolidarsi del regime degli Assad che domina la Siria fin dagli anni Sessanta, ma descrive una condizione soffocante di repressione e annichilimento interiore che invita a riflettere su tutte le forme di dispotismo contemporaneo.
Una conferma delle straordinarie doti di narratore di Khaled Khalifa, nato ad Aleppo nel 1964, tra gli autori più significativi della letteratura siriana degli ultimi anni (che con questo libro ha ottenuto nel 2013 il premio Mahfuz), ma anche una ulteriore testimonianza del suo ruolo di primo piano nell’opposizione progressista al regime di Damasco. Un impegno che la guerra in corso nel paese non ha attenuato. Khalifa sarà oggi a Milano al teatro Parenti, in dialogo con Wlodek Goldkorn.

All’inizio del romanzo, una delle protagoniste femminili, Sawsan, coglie nello sguardo dell’uomo che ama da tempo, pur tra mille difficoltà, il tentativo di vivere «una specie di estremo incontro con ’l’anima’ della città, prima che questa morisse». Voleva rendere omaggio alla sua Aleppo, prima schiacciata dal regime e quindi distrutta dalla guerra, o tentare di annunciarne una qualche possibile rinascita?
Sawsan vede avvicinarsi la fine della città che ama e che coincide per certi versi anche con quella della sua famiglia, forse dell’idea stessa di «casa», di un luogo e di qualcosa di proprio. La guerra è in effetti solo l’ultimo capitolo di una tragedia iniziata tanto tempo fa. Questo libro parla della morte sociale. Della possibile scomparsa di una città, e di un paese intero per effetto della cappa di piombo che un regime come quello degli Assad ha fatto calare su di loro. Cinquant’anni di dittatura uccidono l’anima di qualunque luogo. Tuttavia una città che ha la storia millenaria di Aleppo non può morire del tutto e fino in fondo. Mi chiedo come possa scomparire davvero. Ma più che interrogarmi sulle rovine cerco di capire come si possa vivere tutto questo tempo sotto una dittatura. Forse non a caso il luogo dove questo romanzo ha avuto più successo è stato Il Cairo. I miei amici che vivono nella capitale egiziana sostengono che il libro parla anche della loro città. Perché riguarda anche la perdita del ruolo che queste metropoli hanno esercitato in passato, quando la vita vi scorreva libera, e cosa ne rimane dopo repressione e violenze durate così a lungo.

Khaled-Khalifa
Khaled Khalifa

La cifra con cui questa decadenza collettiva e individuale viene tradotta nel libro è quella della vergogna. Per riflettere su cosa il regime abbia fatto della Siria, ha scelto di interrogarsi su ciò che la dittatura ha fatto di ciascun cittadino?
La vergogna è senza dubbio il sentimento più comune tra i personaggi del romanzo, quello che li unisce e allo stesso tempo li contrappone reciprocamente. Si vergognano di ciò che vedono intorno a loro, del sistema di delazione generalizzato, dei ricatti continui che li circondano, di ciò che sono diventati a causa dell’abitudine quotidiana all’oppressione.
Del resto, se penso alla mia famiglia, mi chiedo come abbiamo fatto a vivere per più di cinquant’anni in questo modo, sotto questo regime. Non dico che non abbiamo alzato mai la testa, ma certo provo un grande pudore al riguardo: la vergogna di chi sa che forse le cose potevano andare anche in un altro modo. All’inizio del Novecento ad Aleppo c’erano qualcosa come undici giornali, quotidiani del mattino o della sera, scritti in varie lingue, in arabo, francese e inglese. Si respirava un grande fermento. Oggi c’è un unico giornale, ovviamente controllato dal regime, ed è formato da soli due fogli. E forse, per riprendere quanto abbiamo già accennato, bisogna chiedersi se una città in cui non c’è più un vero giornale non debba essere considerata una città morta. È normale interrogarsi su come si possa condurre una simile esistenza. Tu magari non sei mai stato arrestato o ferito, sei ancora in vita ed è già tanto. Puoi vivere un’illusione di salvezza, ma in realtà ti pervade questa condizione di morte. Una morte civile, quella delle coscienze.

In questo senso, il destino della famiglia dei protagonisti si intreccia con quello del paese al punto che la voce del narratore sottolinea come «la foto di famiglia, appesa nel salone, era diventata per noi un peso, una menzogna oscena che non potevamo più nascondere». Vivere sotto una dittatura rende impossibile la verità?
O forse ne costruisce una addomesticata a tal punto da essere più simile a una bugia? Questa foto di famiglia, in cui appaiono ancora uniti, malgrado il padre sia fuggito da tempo con un’altra donna e la madre abbia perso ogni antico retaggio borghese, rappresenta l’ipocrisia estrema: ciò che queste persone si raccontano di loro stesse ma non sono più da tempo.
Credo che uno dei compiti più importanti della scrittura sia quello di riuscire a guardare le cose da un punto di vista diverso da quello ordinario. I cambiamenti che possono avvenire non si colgono tanto nell’immagine esteriore delle cose, quanto nel background più intimo che conduce fin lì; in ciò che fa da sfondo a quella scena. La cosa importante non è tanto ciò che vedo, ma quello che non riesco a vedere. Quindi, se la società siriana ha vissuto fino a oggi su una menzogna collettiva che abbiamo almeno in parte accettato come verità, ora è venuto il momento di smettere. Mentre la famiglia che è al centro del romanzo implode al suo interno, il mondo le esplode intorno. Sono gli effetti della guerra ancora in corso nel mio paese, ma anche il possibile annuncio che tutto ciò potrà finire.
A frenare le spinte al cambiamento è stata fin qui soprattutto la paura. Qualcosa di onnipresente e che, come dicono i suoi personaggi, «ci è rimasta appiccicata addosso». In effetti, la paura è uno degli elementi costitutivi della vita dei siriani. Quando ho cominciato a scrivere il romanzo c’erano centinaia, forse addirittura migliaia di immagini che si affacciavano alla mia mente e chiedevano in qualche modo di entrare a far parte del testo. E la maggior parte di queste immagini erano strettamente legate alla paura. Io ho 54 anni e non ho mai potuto scegliere il mio governo, né votare in tutta la mia vita. Neppure a scuola, a un livello minimo di responsabilità, ho mai potuto eleggere un rappresentante di classe. E questo mio silenzio obbligato è stato sempre utilizzato come una sorta di tacita approvazione dell’operato del potere. La paura regola ogni aspetto pubblico della nostra vita, si è addirittura sviluppata una specie di nuova lingua per dire le cose nel modo esatto in cui ci si aspetta che le diciamo. Del resto, migliaia di giovani siriani hanno passato decine di anni in galera solo per aver pronunciato la frase sbagliata nel posto o nel momento sbagliato.

Eppure, nel 2011, è scoppiata una vasta rivolta che è sembrata poter rovesciare il regime. Poi, la guerra ancora in corso ha fermato la spinta al cambiamento. Ora cosa potrà accadere?
A lungo, nel paese è stato come se la vita scorresse su due piani paralleli che si intersecavano solo in apparenza. Da un lato c’era quella del regime, dall’altra quella della stragrande maggioranza della popolazione. In mezzo, un ramificato sistema di informatori e una spietata polizia segreta. Poi, nel 2011 il muro della paura si è finalmente infranto. Oggi, mentre questa tragica guerra è sul punto di concludersi, i siriani non sembrano credere più a nessuno. Ma forse è proprio questo il primo passo necessario per cominciare a costruire una nuova identità del paese. Per riprendere il filo della nostra rivoluzione incompiuta.

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