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Il silenzio e l’orrore dell’«ultima» esecuzione capitale

Il silenzio e l’orrore dell’«ultima» esecuzione capitaleCartello contro la pena di morte negli Stati Uniti – LaPresse

Trump, il boia L’esecuzione di Montgomery ha risvegliato dal torpore un’opinione pubblica europea e italiana che sulla pena di morte negli Usa non provava indignazione da molti anni

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 14 gennaio 2021

Stanotte la vile sete di sangue di un’Amministrazione fallimentare si è mostrata in tutta la sua evidenza. Tutti coloro che hanno preso parte all’esecuzione dovrebbero vergognarsi.
La nostra Costituzione è stata violata».

«Infatti proibisce l’esecuzione di una persona che non è in grado di comprendere razionalmente cosa sta per accadere. L’Amministrazione Trump questo lo sapeva bene. E l’hanno uccisa comunque». Lisa Montgomery non ha detto una parola. All’una e 31 minuti (le 7,30 in Italia) di ieri è stata dichiarata morta. Al suo posto ha parlato la sua avvocata Kelley Henry e ha detto tutto, ma veramente tutto, quello che c’era da dire.

Nelle 24 ore precedenti era successa ogni cosa: una sospensione dell’esecuzione decisa da una corte federale, l’annullamento della sospensione da parte della Corte suprema, un nuovo ricorso per la sospensione accolto da una corte federale, un altro annullamento della Corte suprema, un ricorso direttamente alla Corte suprema respinto con un voto di scarto, un vano appello direttamente a Donald Trump per la clemenza.

Ieri mattina intorno alle 6.30, dopo centinaia di tweet che per tutta la notte avevano dato aggiornamenti in tempo reale, per un’ora c’è stato un silenzio tombale: il segnale che l’esecuzione era imminente e poi in corso e infine terminata. Dentro, i testimoni senza possibilità di comunicare con l’esterno. Fuori i giornalisti ad attendere. Quel silenzio, quel vuoto di comunicazione è stato impressionante.

Per gli appassionati dei numeri e dei record, quella di Montgomery è stata l’undicesima esecuzione federale sotto l’amministrazione Trump in soli otto mesi; è stata anche la prima esecuzione federale di una donna dopo 57 anni; è stata, infine, la prima esecuzione federale durante il periodo di transizione da una presidenza all’altra degli ultimi 130 anni.

Per tutti gli altri, è stata una sconfitta. La sconfitta di coloro aveva creduto fino in fondo che “una persona che non è in grado di comprendere razionalmente cosa le sta per accadere” non sarebbe stata messa a morte. La sconfitta di coloro che avevano sperato che la decisione di chi, per la prima volta all’interno delle istituzioni statunitensi (un giudice federale), aveva dato ascolto a Montgomery, reggesse all’impatto con la Corte suprema.

Soprattutto, è stata una sconfitta dello stato. Che non ha saputo proteggere la bambina Montgomery dallo stupro, dal suo affitto per sesso ad altri uomini da parte della madre, dalla violenza sessuale del patrigno e dei suoi amici. Che non ha saputo curarla dai traumi provocati dall’orrore subito e da quello visto (lo stupro della sorella maggiore, a sua volta bambina). Che infine non ha riconosciuto la sua malattia.

L’esecuzione di Montgomery ha risvegliato dal torpore un’opinione pubblica europea e italiana che sulla pena di morte negli Usa non provava indignazione da molti anni. Le immagini delle manifestazioni di fronte all’ambasciata statunitense a Roma, le veglie per scongiurare le esecuzioni nelle principali piazze delle città italiane sembrano in bianco e nero. Ieri se n’è tornato a parlare.

Certo, per l’orrore eccezionale del delitto commesso da Montgomery nel 2004 (l’omicidio di una donna all’ottavo mese di gravidanza con successiva rimozione del feto, brandito come finalmente figlio suo, come a dire «Nel mio corpo è entrato l’orrore, ma ne è anche uscito qualcosa di bello»). Ma anche per l’accanimento dell’amministrazione Trump, per la sua insistenza a chiedere la messa a morte di una persona affetta da danni cerebrali e grave malattia mentale e per l’ostinazione a cercare, mentre scrivo, di annullare la sospensione (dovuta alla positività al Covid-19 di entrambi i condannati) delle esecuzioni previste oggi e domani.

La scia di sangue che ha contrassegnato gli ultimi sei mesi di presidenza Trump è stata spaventosa: 11 esecuzioni federali da luglio dopo 17 anni di assenza, la pena di morte (e dunque la vita dei condannati) utilizzata come argomento elettorale per fare presa sul suo elettorato e convincere qualche altro indeciso e impaurito.

Negli ultimi decenni si diceva, per paradosso, che se il Texas si fosse dichiarato indipendente la pena di morte avrebbe cessato di essere un problema negli Usa. Nel 2020, con 10 esecuzioni su un totale di 17 (e da ieri siamo a 11 e chissà se dopodomani saremo a 13), è stata l’Amministrazione Trump a proclamare la sua indipendenza: dallo stato di diritto, dai principi costituzionali, dalla decenza e dall’umanità.

Tra le tante cose che quella parte di mondo si aspetta da Biden a partire dal 20 gennaio c’è anche l‘abolizione della pena di morte a livello federale. La speranza, poiché quell’impegno è stato preso pubblicamente e c’è già una bozza da presentare al Congresso, è che questo sia uno dei primi atti della sua amministrazione.

 

* Portavoce di Amnesty International – Italia

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