Il silenzio dei non-innocenti. Quo vadis Rai?
Ri-mediamo La rubrica settimanale a cura di Vincenzo Vita
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Non c’è traccia della o sulla Rai nella discussione sulla «rete unica» delle telecomunicazioni, dove pure lo spazio vi sarebbe.
Il servizio pubblico, infatti, ha una consolidata presenza nel sistema tecnologico, disponendo di capillari reti di diffusione. Immaginate per veicolare il segnale radiotelevisivo, ma certamente adatte a consolidare per altre vie la larghezza di banda necessaria per la capillare copertura dell’Italia. Se in stagioni passate era netta la differenza tra il cavo (allora in rame) e le onde hertziane, è difficile mantenere simili manicheismi nell’era digitale. Vari supporti (fibre ottiche, frequenze radio, Wifi e 5G) possono concorrere alla realizzazione dello scopo ultimo delle iniziative: abbattere le differenze tra le aree ricche e quelle povere o marginali.
Serve un mosaico di approcci al cosiddetto «ultimo miglio», vale a dire la connessione fin dentro le abitazioni. Dunque, perché l’azienda di viale Mazzini non è ancora tra i protagonisti della vicenda?
Avremmo un risultato bizzarro della vicenda: le società delle torri di collegamento controllate da Tim (InWit) e da Vivendi-Mediaset (EiTowers) vi sarebbero, RaiWay no. Ne ha parlato giustamente il segretario del sindacato dei giornalisti interni Vittorio Di Trapani.
Sembra quasi inesorabile la scelta di accompagnare la parabola discendente del fu monopolio dell’etere. Come se si desse, ormai, per acquisito che si tratta di un soggetto dimezzato senza futuro. Non solo. Chi irrigherà di contenuti la celebrata «rete unica»?
Insomma, la questione non è meramente tecnologica, mentre ha a che fare da vicino con la vera contesa in corso. E che attraverserà i prossimi anni: vincerà un’idea plurale e democratica di produzione e di consumo, ovvero il predominio degli Over The Top sarà incontrastato, percorrendo l’intera filiera?
È’ un tema delicatissimo, interpellando direttamente le forme di tutela delle diversità culturali, nonché l’autonomia dei modelli creativi rispetto alla fredda egemonia degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale. Per non dire delle caratteristiche qualitative del lavoro culturale e artistico sotteso, cui è in grado di offrire risposte e prospettive una sapiente coniugazione di tecnologie, forme e contenuti.
Attorno al coinvolgimento della Rai, dunque, si gioca una sfida strategica, che va al di là delle ragioni o dei torti del servizio pubblico. Vi è, insomma, una motivazione storica, superiore nella sua entità al passaggio alla di trent’anni fa.
Peccato che, al contrario, la Rai sia investita a folate alterne da un dibattito vecchio e logoro. Il riferimento è all’ennesima riedizione del capitolo inerente alle risorse: canone e pubblicità. Il primo, ora pagato nella bolletta della luce, ammonta a circa un miliardo e 750 milioni di euro. In verità, dei nominali 90 euro, 74,8 si dirigono realmente nelle casse aziendali, il resto essendo a vario titolo appannaggio dell’erario statale.
La raccolta pubblicitaria (dati antecedenti alla crisi del Covid) ammonta a 600 milioni di euro. Ecco. Si attribuisce, vuoi al presidente del consiglio Conte, vuoi al Mov5Stelle, vuoi a pezzi del partito democratico (?) l’intenzione di restituire al broadcaster pubblico l’intero canone, togliendo per converso una quota di spot.
E’ un eterno ritorno, se si pensa che l’ipotesi di togliere la pubblicità da una rete della Rai risale alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, contenuta nella prima bozza (prontamente cancellata) della legge Mammì del 1990. Dal nome dello scomparso ex ministro delle poste e telecomunicazioni.
Altrettanto cercò di approvare il centrosinistra nel 1998-2000, ma la scure del «duopolio» conservatore tagliò le gambe a qualsiasi ipotesi di riforma. Toccare la Rai, infatti, significava toccare anche Fininvest-Mediaset. Apriti cielo.
Adesso se ne riparla. Perché no? L’importante è che si inquadri in una proposta di legge che abbia il respiro di un’alternativa. La corte di giustizia di Lussemburgo ha sancito la fine (senza rimpianti) del brutto e vetusto ordine, officiato da Maurizio Gasparri.
Non servono trovate estemporanee. Sono indispensabili pensieri lunghi e rotture coraggiose.
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