Il signorsì dell’Italicum
Fuori, senza troppe storie, i dissidenti Pd, la riforma elettorale è un minuetto per chi si adegua. Concluso subito l’esame in commissione. Renzi fa lezioni di democrazia e il suo vice accusa l’opposizione di fare «cagnara». È l’ultima tappa di un percorso di prevaricazioni e strappi sulla legge più importante
Fuori, senza troppe storie, i dissidenti Pd, la riforma elettorale è un minuetto per chi si adegua. Concluso subito l’esame in commissione. Renzi fa lezioni di democrazia e il suo vice accusa l’opposizione di fare «cagnara». È l’ultima tappa di un percorso di prevaricazioni e strappi sulla legge più importante
Tra chi è stato cacciato e chi ha deciso di andarsene, era assente la maggioranza della originaria commissione affari costituzionali quando ieri pomeriggio è cominciato e subito finito l’esame degli emendamenti alla legge elettorale. Tutti respinti. Dieci deputati del Pd variamente non renziani sostituiti con dieci fedelissimi del segretario, e quindici commissari di opposizione (Forza Italia, Lega Nord, Movimento 5 Stelle e Sel) fuori per protesta. Cadono gli emendamenti degli assenti, bocciati anche quelli di Scelta civica – alla quale il premier avrebbe promesso una compensazione in posti di governo. C’era tempo per l’ultimo sì e il mandato al relatore (l’ex vendoliano Migliore) ma la troppa fretta ha sorpreso le altre commissioni: i pareri non erano pronti.
Nessun problema per il presidente del Consiglio-regista, persino in anticipo sui tempi. Oggi l’ultimo passaggio in commissione, lunedì il primo in aula in modo da poter contingentare i tempi del dibattito nel mese di maggio. Dove le opposizioni tenteranno il tutto per tutto cercando di far mancare il numero legale e replicando l’ostruzionismo e l’Aventino visto ieri in commissione. Offriranno così il destro al governo per porre la questione di fiducia su tutti gli articoli della legge, una mossa che dovrà servire a evitare (ma il regolamento dovrebbe proibirlo) pericolosi voti segreti. Non tutti: quello finale non è aggirabile ed è già lì che si guarda, alla conclusione della battaglia parlamentare. Intanto Renzi offre lezioni via facebook: «Si chiama democrazia quella in cui si approvano le leggi volute dalla maggioranza. Avanti, su tutto!». Avanti anche con l’insulto ai dissidenti.
Il «non fate cagnara» dell’ex moderato vicesegretario Guerini somiglia molto al «manipolo di studiosi del diritto» del segretario Renzi all’inizio della storia. Che risale al gennaio dell’anno scorso, quando dopo aver proposto a Berlusconi tre alternative possibili per la nuova legge elettorale, il non ancora presidente del Consiglio e il già ex Cavaliere si accordarono per un quarto, del tutto originale. L’Italicum, nella sua prima versione – che aveva soglie più alte e articolate e un premio di maggioranza che scattava al 37% – fu imposto ai deputati come testo base in una notte di commissione assai simile al pomeriggio di ieri. Con i grillini in rivolta, le opposizioni prese in contropiede e tentate dall’occupare l’aula, il testo scritto dal renziano Bressa e dal verdiniano Verdini con la supervisione del politologo D’Alimonte fu votato come base del lavoro parlamentare malgrado fosse la 23esima proposta di legge elettorale. Cominciava allora una storia di forzature parlamentari.
La prima fu conseguenza della bulimia riformatrice: entrato a palazzo, Chigi Renzi annunciò di voler cambiare le regole costituzionali del bicameralismo ma anche la legge elettorale. E non in quest’ordine. Al che fu immediato fargli notare che approvare un nuovo sistema di voto per i due rami del parlamento subito prima di cancellare il senato elettivo era una mezza follia. La soluzione, soprattutto per quei parlamentari che temevano (e ancora temono) che il premier voglia correre alle urne un attimo dopo aver portato a casa l’Italicum, fu quella di limitare la nuova legge elettorale alla sola camera. In questo modo arrivò il primo sì di Montecitorio, a metà marzo 2014; la minoranza Pd aveva appena scagliato il suo primo ultimatum.
La fretta primaverile si dimostrò presto inutile, e la legge elettorale cominciò un lungo sonno dal quale si risveglio in autunno inoltrato in senato, e non era più la stessa. Con il nuovo patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi arrivarono soglie più basse (tutte al 3%), premio fissato più in alto (al 40%) e assegnato alla lista invece che alle coalizioni. In cambio un’altra garanzia per i timorosi della corsa alle urne: l’urgentissima riforma elettorale non entrerà in vigore prima della metà del 2016 – sperando (Renzi) che per allora sarà pronta la nuova costituzione. Ma anche al senato l’opposizione era un problema, e in commissione fu risolto senza sostituzioni (d’altronde i “dissidenti” erano già stati cacciati): il governo decise di saltare del tutto la commissione. Niente mandato al relatore e legge subito in aula, malgrado la Costituzione preveda che per le leggi elettorali sia sempre assicurata la procedura «normale di esame e approvazione».
Anche allora il primo passaggio in aula fu solo una rapida formalità, alla vigilia delle feste di natale, utile solo a contingentare successivamente i tempi a gennaio. Ma non bastò, e così ecco materializzarsi il più clamoroso degli espedienti: un emendamento «truffa» – emendamento Esposito – con dentro tutti contenuti della legge. Messo in votazione per primo dal presidente del senato, servì solo a provocare la caduta di tonnellate di emendamenti ostruzionistici. Una forzatura che sembrava insuperabile. E invece non è ancora finita.
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