Alias Domenica

Il Settecento si fa periodico

Classici inglesi Dal 1750 al 1752, due volte a settimana, Samuel Johnson pubblicava (e scriveva) «Il Viandante». Ogni articolo partiva dal motto di un classico. Aragno li ha tradotti in due volumi

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 8 dicembre 2019

«Il recensore è un’altra cosa dal critico, e la sua effimera presenza è legata all’aquilone della politica editoriale» – così avvertiva Virginia Woolf nel 1939. Il suo lavoro sarà svolto (e in molti giornali è già così) da un efficiente funzionario armato di forbici e colla (oggi copia e incolla) chiamato lo Spremitore che farà il riassunto del contenuto. A quel che resta, l’Assaggiatore apporrà un timbro: una stellina (approvazione) o una crocetta (condanna). «Timbro più Spremitura sostituirà il discordante e insensato chiacchiericcio che regna attualmente». Ma questi due possenti volumi targati Aragno pongono interrogativi a loro proporzionali: Samuel Johnson, Il Viandante, traduzione e cura di Daniele Savino (pp. LI-1427, € 75,00). Un prezzo conveniente per chi voglia leggere la prima traduzione italiana di The Rambler, un periodico scritto dal dottor Johnson, dal marzo 1750 al marzo 1752, che usciva il martedi e il sabato, per ben 208 articoli, quasi tutti di suo pugno. Il Settecento inglese vide il fiorire del saggio periodico, legato al grande umanistico progetto di riformare i costumi, educare le donne, la rozza gentry campagnola che si recava a Londra una volta all’anno, e la rampante borghesia mercantile. Lo Spectator (1711-12, 1714) di Addison e Steele era stato l’insuperato esempio di saggismo periodico, responsabile diremmo oggi, che intendeva educare divertendo e divertire educando. Il compito era enorme per la natura astratta della lezione morale ed estetica diretta a lettori distratti e protetti dal proprio egoistico bisogno di certezze, e a tale scopo dovevano essere escluse la politica e la religione che avevano insanguinato il secolo precedente.
Il Settecento andava verso la secolarizzazione, il cosmopolitismo, un’idea della convivenza sociale pacifica, consapevole, elegante – eccezion fatta per la grande piaga della povertà che gli economisti di buon cuore lamentavano. L’operazione che la saggistica e il teatro si ripromettevano richiedeva in prima istanza di far scendere i classici dall’alto seggio iperuranio e costringerli a predicare il bello e il buono, la condotta morale e civile, essendo anche maestri di eloquenza e di stile. Nella discesa nel neo-classicismo quegli antichi maestri furono abbigliati in vesti nuove, parrucca e spadino. Oliver Goldsmith, abitualmente in giacca di velluto viola, scriveva l’attualissimo The Citizen of the World, mentre l’altro amico e futuro biografo del dottor Johnson, James Boswell, preferiva un rosso abbagliante, colori parimenti insopportabili al trasandato, spettinato, goffo, debordante dottore. «Era di corporatura vasta e ben formata – scrisse Boswell – ed aveva l’aria di una statua antica; ma il suo aspetto era reso bizzarro e inconsueto da certi crampi convulsi, dai segni della scrofola, e dalla sciattezza del vestire». Famose erano le sue battutacce. A un barcaiolo del Tamigi: «Signore, vostra moglie, sotto pretesto di tenere un bordello, fa la ricettatrice di merce rubata»; a un poeta: «Rileggi il tuo componimento, e tutte le volte che trovi un punto che ti sembra particolarmente bello, cancellalo»; a un oppositore: «Signore, io vi ho fornito un argomento, ma non sono tenuto a fornirvi anche l’intelligenza». Nel salotto dei Thrale, al Mitre Tavern in Fleet Street, nel suo Literary Club, ovunque fiorisse la conversazione, questo centro nevralgico della vita settecentesca, il dottore dominava da tiranno il campo di battaglia. «E se la pistola fa cilecca, ti dà un colpo in testa col calcio dell’arma» – lamentava il mite Goldsmith. Era un privilegio assistere a una sua performance, intanto che il giovane Boswell, dietro quella prestigiosa poltrona, prendeva appunti.
Occupato a comporre il primo straordinario dizionario della lingua inglese, Dictionary of the English Language che uscì nel 1755, il dottor Johnson scriveva in fretta i suoi articoli per Il Viandante e li mandava in tipografia senza revisionarli. Gli argomenti da trattare erano tanti e radicati nella coscienza comune: l’uomo, unico come specie, benché inesatto e manchevole, possiede coscienza e nobiltà; il pessimismo è centrale nell’esperienza umanistica, sia religiosa che laica; assorto nella sua vita morale, l’individuo è piuttosto contro che entro lo scenario fisico in cui vive; il rapporto con la letteratura è in prima istanza morale, poi estetico; la devozione al passato è fortissima. I suoi articoli seguivano uno schema fisso: il motto latino di un classico (Orazio, Giovenale, Plutarco, Marziale, Virgilio, Omero) veniva macinato dal grande mulino del dottor Johnson – l’immagine è di Boswell – fino a che ne fosse ricavata l’applicazione adatta al suo lettore, campione di un io collettivo, di cui lo interessava la salute morale e la filosofia di vita.
Gli argomenti potevano variare dalla dissertazione politica a temi morali, letterari, psicologici, racconti allegorici, novelle orientali, come precisa il curatore nei suoi preziosi ambiti tematici. Le signore lettrici ci hanno lasciato pareri diversi. Elizabeth Montagu, una vivace blue stocking, femminista ante-litteram, disse che Il Viandante seguiva allo Spectator come un mulo a un cavallo di razza. Invece Anna Seward, la poetessa, lodava senza mezzi termini la prosa del dottore. L’amica di una vita, la signora Thrale, testimoniava che come parlava così scriveva; una giovane che lo incontrò su una diligenza confermava: «Ogni frase è un saggio». Benché Lytton Strachey tratteggi un Boswell scioperato, libertino, ubriacone, snob, dobbiamo affidarci a lui per comprendere l’effetto del Viandante sui suoi contemporanei: «nessuna mente potrà dirsi poco istruita una volta assimilato tutto ciò che riuscirà a trovarvi grazie a uno studio e a una meditazione costanti».
A noi Il Viandante fa un altro effetto: la solidità di quel mondo morale si imponeva come un sistema chiuso e inalterabile, facendo appena trapelare quei fermenti sociali che Defoe aveva già compreso. Il nuovo si era annunciato con Robinson Crusoe e Pamela. Forse Hogarth aveva suggerito al Dottore la figura del giovane libertino, la sua controparte femminile Zosima in cerca di un umile lavoro in quella Londra impietosa, e la prostituta Misella. «Vivo questa vita abietta ormai da quattro anni, schiava di estorsori e gingillo di ubriaconi; ora proprietà esclusiva di un uomo, ora preda ordinaria di qualche occasionale libidinoso; un giorno agghindata per essere venduta dalla padrona di un bordello e un giorno costretta a mendicare per strada, nell’attesa che qualche depravato mi conceda un tozzo di pane; la mia unica speranza quotidiana è quella di trovare qualche folle o qualche amante degli eccessi da adescare, e quando arriva la sera i miei unici pensieri sono quelli dettati dal senso di colpa e dalla paura» (n.171).
Ci interessano le prime riflessioni sulla biografia, l’autobiografia, la critica, la differenza tra la vita privata dello scrittore e la sua opera, le difficoltà, i trabocchetti, la fama, le illusioni. Il capolavoro di Johnson che fonda la critica moderna è The Lives of the English Poets del 1781, frutto di passeggiate notturne nei bassifondi londinesi con amici poco raccomandabili, non meno che della sua erudizione.
Manganelli si era innamorato di Johnson (e di Boswell) leggendo la magnifica, inimitabile, Life of Samuel Johnson che il pazzo biografo riuscì a pubblicare nel 1791. Al Fondo di Pavia si trovano le Lives e The Rambler, con annotazioni a margine di suo pugno. «Johnson è il primo esempio indubitabile di un eroe di massa, caro a uomini e donne di tutti gli strati sociali, materia di divertimento, di ammirazione, di devozione, di amore … È diventato un eroe eponimo di un ipotizzato animus johnsoniano: Johnson deriva da Johnsoniano, non viceversa».

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