Il senso di una ritualità priva di oggetto
«Non posso andare avanti. Andrò avanti». La disperata volontà di resistenza dell’innommable beckettiano produce un suo frutto godibile, metà commedia di costume e metà tragedia della quotidiana convivenza, nel romanzo titolato Gli inconvenienti della vita (traduzione di Giuseppina Oneto, Adelphi, pp. 122, euro 16,00) nel quale lo scrittore statunitense Peter Cameron raccoglie due dei suoi più riusciti racconti recenti: «La fine della mia vita a New York» e «Dopo l’inondazione».
Già pubblicate separatamente in rivista in momenti diversi, queste due storie vengono ora messe l’una a specchio dell’altra nel formato libro. Il volume esce contemporaneamente in lingua originale e in italiano, circostanza che riverbera sulla traduzione l’autorità di una prima uscita. Quasi di un originale.
Un bivio per la traduzione
Il rischio cui questa lingua seconda si espone è ovviamente molto alto. La striatura beckettiana tende ad attirarla nel tranello di una «semplicità», di un primo livello mimetico che nella scrittura di Cameron è certamente alluso, ma solo per prenderne le distanze. Riprodurre in traduzione questo effetto di terza dimensione della parola non era affatto facile, perché nel termine «living» è abolita la distinzione tra il tempo del vivere e lo spazio dell’abitare.
I modi dell’abitare, così come vissuti dai protagonisti, sono il motore di questi racconti, letteralmente ciò che li fa muovere, da inizi in minore portandoli verso conclusioni che sono vere e proprie sospensioni esistenziali, inaspettate aperture su microscopiche tattiche di resistenza, tanto più drammatiche quanto più impercettibili: essere sul punto di accendere la luce, prima che faccia buio; accorgersi di desiderare di «essere stati più vivi», prima che l’occasione fuggisse.
Questa attiva volontà di esserci è sottolineata dal titolo sotto il quale queste storie sono iscritte, The Drawbacks of Living. Gli inconvenienti, cioè, del vivere giorno dopo giorno, sperimentalmente. Sicchè la traduttrice deve essersi trovata di fronte a un bivio: «gli inconvenienti della vita» introduceva una deriva consolatoria al fondo di matrice religiosa, ma la lungaggine di un eventuale «gli inconvenienti del vivere» sarebbe risultata insopportabile: leziosa e allo stesso tempo oscura. Meglio dunque accettare un titolo meno pungente dell’originale, ma più rispettoso del «genio» della lingua in cui si traduce.
Stefano e Theo, protagonisti di «La fine della mia vita a New York», sono una coppia di yuppie medio-giovani: Stefano è un avvocato di successo, Theo uno scrittore e insegnante di «scrittura creativa» momentaneamente a spasso. La coppia sta vivendo la fine, o forse solo uno dei tanti passaggi evolutivi della relazione. In seguito all’incidente automobilistico che l’ha immobilizzato a lungo, Theo ha perso il lavoro. Inoltre, dopo un primo promettente romanzo, si è bloccato anche come scrittore. Non meraviglia che la sua psicoterapia proceda con difficoltà. Solo recentemente Theo è arrivato a dire «il mio incidente» invece che astrattamente «l’incidente», come se il fatto non lo riguardasse. Ma la sfasatura fra il titolo fintamente autobiografico e la narrazione saldamente affidata a un narratore-osservatore impersonale, segnala che è comunque lui la coscienza del racconto: sua è la «vita a New York» che, stando al titolo, dovrebbe star per finire.
Al momento comunque i due abitano a Manhattan, o più precisamente a Tribeca, il famoso Triangle Below Canal – donde l’acronimo – già zona di degrado urbano, nel corso degli anni Ottanta elevato a costosa enclave intellettual-chic. Nel loro appartamento c’è un grande ambiente living, che ospita «gli spazi per cucinare, mangiare e ricevere gli amici». Il carattere cultuale di queste attività socializzanti è stato marcato in pianta dall’architetto, che ha disegnato il living due gradini più in basso del resto della casa. Si scende, e ci si trova affacciati verso ovest a godersi il tramonto. Peccato che un grattacielo più alto abbia guastato quella vista, che al momento dell’acquisto della casa spaziava fino a Brooklyn e oltre.
Ormai il sole non è più che un riflesso dorato riverberato dalla facciata dirimpetto. Questa trasformazione del sole è come un segnale metereologico del mutamento che si sta abbattendo sul panorama antropico osservato da Cameron. Quelle di Stefano e Theo, così come quella della signora Bird, sono vite così profondamente radicate nel territorio che le nutre, a propria volta nutrendosene, da non sopportare altro sguardo che quello dell’antropologo.
Fra racconto e teatro
Ad accorgersene è proprio lei, Mrs. Bird, che a sessantacinque anni suonati non ha mai lasciato la cittadina in cui è nata, si è sposata e ha messo al mondo una figlia. Di questo sguardo antropologico si avvale per primo lo scrittore, quando fissa l’amplesso tra Theo e Stefano in parole che direbbero altrettanto bene l’atto del parcheggiare una macchina: il guidatore arretra leggermente come per misurare lo spazio concessogli, e poi spinge in avanti e va «a posto». In quello spazio «curatissimo» che è la loro casa, ogni cosa ha il suo posto e ogni posto la sua cosa.
Il senso di una ritualità priva d’oggetto fa sì che gesti e parole sembrino accadere dopo un disastro. Nel dire questo ritardo la scrittura si fa «semplice», minimalista. Mima l’effetto di après-coup che per la traduzione è dato costitutivo. Cameron concede ai suoi protagonisti una presa sui fatti significativamente più debole, perché meno oggettiva, di quella concessa ai comprimari. Si arriva così all’assurdo.
a signora Bird, narratrice autobiografica di «Dopo l’inondazione», non esita ad ammettere con se stessa che la decisione, sua e di suo marito, di non frequentare più la chiesa ha segnato, «forse», il cambiamento più profondo nel corso della sua lunga vita matrimoniale, «a parte ovviamente la perdita di Alice e Laila»: rispettivamente la figlia e la nipote bambina, perite nel suicidio di gruppo orchestrato anni prima, assieme al genero Charlie, per motivi non chiari. Tradurre questa situazione in teatro richiederebbe poco meno dei fratelli Marx.
Cameron ha perfetta consapevolezza della differenza formale tra racconto e teatro. Benché molto corteggiato dal cinema, ha ribadito questa che per lui è una insormontabilità: «Credo che film e romanzi siano forme ben differenti: sono fatte diversamente, sperimentate diversamente e ottengono i loro effetti attraverso varie modalità quindi non credo che i film tratti dai miei libri abbiano molto a che fare con me anche se so che questo può farmi conquistare più lettori, dunque ne sono felice».
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