Visioni

Il senso di una fine per Masin

Il senso di una fine per MasinGigi Masin

Musica L'artista veneziano è un uomo che vive di stagioni. Quella degli anni ottanta che culmina nell’autoproduzione di Wind, un’opera tutta in sottrazione e necessità. Le poche copie stampate vengono regalate o quasi, le vende a mano, a casa sua perché «volevo regalarmi qualcosa di mio, era un pensiero anarchico, l’aspetto economico era inesistente»...

Pubblicato più di un anno faEdizione del 16 marzo 2023

“La nostra vita non è la nostra vita, ma solo la storia che ne abbiamo raccontato”. A Gigi Masin avrei voluto chiedere conto di questa frase di Julian Barnes ma non l’ho fatto. Perché la sua voce è piena, misurata e fin da subito travolge nella sua compostissima lucidità, raschiando via il superfluo fino all’essenzialità dello stato delle cose. Scontato ma pur sempre curioso per uno che ha scelto di comporre musica ambient dove tutto è immagine, ricordo, suggestione. Veneziano, classe ’55, Masin è un uomo che vive di stagioni. Quella degli anni ottanta che culmina nell’autoproduzione di Wind, “young that younger love”, canta nella struggente apertura, Call Me, di un’opera tutta in sottrazione e necessità. Le poche copie stampate vengono regalate o quasi, le vende a mano, a casa sua perché «volevo regalarmi qualcosa di mio, era un pensiero anarchico, l’aspetto economico era inesistente». E alla fine, dopo vent’anni o quasi d’attesa, arriva l’acqua, un elemento premonitore e salvifico che contraddistingue i racconti masiniani assieme all’eterno ritorno del passato. «Un trasloco, una tempesta, 2 metri di fango, 50 copie risucchiate dall’acqua». Sono dei flash, delle istantanee i racconti di Masin. «Mai mai mai e poi mai e poi ancora mai avrei pensato di fare un solo altro disco», cantilena venezianamente.

E INVECE. Invece arriva la riscoperta improvvisa a cavallo dei duemila, le ristampe, i concerti all’estero, il “widely-loved electronic maestro”. Una nuova stagione per chi vive di minimalismo, delle volte la vita. Dice letteralmente: «ti ritrovi ad attraversare le pianure». E ha assolutamente senso per una «persona umida come me, come tutti i veneziani», Venezia, l’acqua e tu, parafrasando un filmetto degli anni cinquanta. L’essere umido è un modo di essere, che «si rispecchia nel mare tutto attorno e l’infinità del cielo sopra, l’assenza di una porta per la città, nel silenzio del non avere auto, l’umidità nell’aria è nelle persone ed è una qualità preziosa questa apertura senza mura». Scandaglia a fondo tutto, Masin, si diceva dell’elemento dell’acqua congiunto al passato. Nel primo video tratto dall’ultimo meraviglioso disco, Vahinè, i particolari sull’acqua, delle onde avvolgono lentamente una figura femminile nuda, che riemerge, quasi non la vediamo in volto, il finale aperto. Mette subito in chiaro le cose: «non pensavo ci potesse essere una fine». No, non è un disco dedicato o ispirato dalla recente scomparsa della moglie, mette le mani avanti fin da subito, sarebbe stato troppo facile e inutile. Si sviluppa, Vahinè, come un riaffiorare di ricordi sparsi, come svuotare un cassetto sul tavolo e ricominciare daccapo. Seppur possa sembrare banale sottolinearlo, «nel dolore si nasconde la gioia, sopravvive una nuova energia dalla crisalide del dolore», usa esattamente queste parole, con una naturalezza innata. «Una maschera del dolore difficile da trasmettere in musica», e dunque questo nuovo disco «vuole essere solo la fotografia di quel preciso momento, perché si deve reagire».

Invece arriva la riscoperta improvvisa a cavallo dei duemila, le ristampe, i concerti all’estero, il “widely-loved electronic maestro”. Una nuova stagione per chi vive di minimalismo, delle volte la vita. D

E COSI’ Vahinè è suadente e melanconico come lo stesso amore estivo tutte le estati, lento e improvviso come una perdita perenne, e se non bastassero le tinte jazz e mediterranee ecco riaffiorare sullo sfondo l’uscita di scena deep techno, ma ci sarà un perché su questa scelta ma lo tiene per il gran finale. Conversando torna in mente un’altra frase di Barnes: “pensavo alle cose che mi erano successe negli anni e a quanto poco avessi fatto succedere io”. Masin non è così radicale ma gli piace l’idea dell’uomo testimone, sempre «un passo a lato rispetto all’amore, per me la vera religione». E così ha fatto negli ultimi neri mesi, divaga, racconta della passione di lei per la danza del ventre e dell’impossibilità di praticarla, la sofferenza nell’ineluttabilità. Un fotogramma minimo utilissimo a dare il giusto ordine alle cose. Dopotutto Beckett diceva, “prima danza, poi pensa, è l’ordine naturale delle cose”. L’ultima stagione infine, che non è rinascita ma è un qualcosa di più, chiamatela consapevolezza. Dorme ancora poco – ma ora va meglio -, di notte ascolta la radio – perché non sai mai cosa ti aspetta -, cresce i figli, compone musica. Vede documentari francesi con protagoniste le Vahinè, danzatrici tahitiane, e si lascia ispirare. «L’idea che ora possa danzare liberamente, senza impedimenti, nessuna sofferenza, sorriderci». Dopotutto Masin sta solo continuando a fare la sua musica e lei a danzare come mai aveva fatto prima.

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