Anatomia di un profeta di Demetrio Paolin (Voland, pp. 250, euro 17) segna una traiettoria del tutto eccentrica rispetto all’orizzonte letterario attuale, dominato dal romanzo centrato sulla trama e scandito da un ritmo di cose che accadono. L’avvenimento, qui, è uno solo – l’azione apparentemente compiuta in se stessa con cui un essere umano si uccide – e tutta la realtà circostante ne costituisce l’effetto.
In una piccola comunità rurale governata dalla meccanicità dei cicli naturali della vita e della morte – la semina, il fiorire, il fruttificare, il raccogliere e il seccare – e dall’altrettanto naturale imprevedibilità di ciò che li inceppa seccando, ammalando, impedendo la fruttificazione, accade il suicidio di un bambino. Uccidendosi Patrick, figlio undicenne di immigrati polacchi che lavorano nei campi, continua a gettare in faccia al mondo la sua smisurata, eccessiva domanda di vita e di esperienza alla quale il male compiuto ed esperito (bruciare gli insetti guardandoli agonizzare, reagire con un morso all’offesa verbale) era stato corradicale.

TRASFORMAZIONE, dissoluzione, corruzione, contraddizione, paradosso, assurdità: tutto questo consegue all’inestricabile interazione di tre elementi – gettarsi nel tempo, amare, morire – che ne formano in realtà uno solo. Così, in una sorta di «essere attraverso», l’adolescente Demetrio, autore-narratore del libro e personaggio che è stato parte della comunità di Patrick, conosce per mezzo della domanda di vita e di morte urlata dal bambino il legame non razionalizzabile tra sesso, morte e amore, facce elementari dell’essere nel tempo. Così i genitori del bambino morto assumono il peso di un amore che diventa lacuna fisica, evocazione della colpa, desiderio rabbioso e impossibile di un corpo non più esistente.
Nella resa del movimento esperienziale che salda amore, male e morte in una dimensione al contempo solitaria e mediata dall’altro c’è la straordinaria forza realistica del libro: nessuno svolgimento della trama, ma al contrario riavvolgimento del nastro attorno all’unico centro che propaga da un personaggio all’altro il tutto vitale.

IL MOMENTO in cui l’essere umano diviene campo di battaglia è insomma non solo la grande forza, ma il motore autosufficiente del romanzo. C’è però sin dal titolo una «struttura» a sorreggere: quella biblica e figurale dell’incarnazione. La vicenda e il corpo di Patrick è anche l’«anatomia» del profeta Geremia, colui che annuncia la distruzione di Gerusalemme soffrendo e trasmettendo agli altri la visione del male, letto da Paolin in chiave neotestamentaria e cristologica. Un’antropologia scritturale certo non nuova dopo La ricotta e altri capolavori pasoliniani, che non aggiunge in realtà a questo romanzo più di quanto non dicano i personaggi.

LA RIPROPOSIZIONE della teologia della storia novecentesca che salva Dio dalla domanda umana sul male rendendolo vittima del suo gettarsi nel tempo, del suo assumere per amore il rischio della contaminazione col male e la morte (vedi H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, 1984) è molto meno efficace della semplice voce del padre di Patrick e del vicolo cieco in cui il suo voler accogliere tutto del figlio perduto, anche ciò che non può essere accolto da nessuno, si consuma.
La riproposizione del classico armamentario teologico sul male che vorrebbe salvare «il senso» dell’esistenza anche a patto di farlo coincidere con l’assurdo (secolare soluzione, da Anselmo d’Aosta in giù) evita troppo disinvoltamente una conclusione più economica, indotta dal romanzo stesso: quella che, di fronte all’assurdo, si limita rilevarlo come tale riconoscendo che il senso non esiste.

LA BIBBIA funziona invece splendidamente come struttura ritmica della narrazione, poiché la struttura liturgica adottata per la scansione dei capitoli ha a che fare con la sostanza ripetitiva e concentrica di un tempo inchiodato a un evento fondativo attorno al quale, come una pianta che vi si arrampica, cresce la storia di ognuno.