Susan Stryker è in Italia per presentare Storia transgender. Radici di una rivoluzione (Luiss University Press, traduzione di Laura Fontanella e Marta Palvarini, pp. 280, euro 23) e dopo il Salone di Torino (dove l’abbiamo incontrata) oggi è a Roma, poi raggiungerà Palermo e Gorizia. A chi le riconosce il merito di aver contribuito a creare gli studi transgender con la sua opera pionieristica di storica e documentarista ricorda che «è stato un processo collettivo». Inoltre, ci tiene a relativizzare il punto di vista della sua «storia transgender»: «quando il libro uscì per la prima volta, avrei voluto dichiarare sin dal titolo che mi occupo di Stati Uniti. Infatti, molte altre storie transgender sono possibili in altri contesti». Eppure, per quanto situato, il suo studio si apre a una dimensione globale e universale

Lei ha dichiarato che «trans» è un concetto politico che va oltre l’essere transgender…
Trans significa oltrepassare il binarismo operante in tutto il tessuto sociale, dalla registrazione anagrafica all’educazione, dai precetti religiosi al matrimonio, dall’accesso al mondo del lavoro alle carceri. Non c’è nulla di sociale che non abbia una dimensione di genere; quindi ripensare il genere liberandolo dal substrato biologico e dai significati culturali a esso associati non significa negare il corpo, bensì che la biologia non deve dettare norme sociali, giudizi di valore e impedimenti alla piena espressione della nostra umanità. Il genere non deve essere un limite ma un modo di sentirsi, uno stile di comunicazione attraverso gesti e interazioni.
La liberazione trans non è, dunque, la lotta di una minoranza ma può essere abbracciata da chiunque desideri immaginare una società dove i significati costruiti attorno al corpo siano diversi da quelli attuali. Ecco perché è anche una mobilitazione intersezionale – non solo dal momento che ne fanno parte persone di varie classi, origini e orientamenti sessuali – ma perché parte da genere e sessualità e li oltrepassa organizzandosi attorno a nodi come il diritto alla mobilità, il contrasto alle politiche urbane segregazioniste, la depenalizzazione del lavoro sessuale, la salute, il sistema penitenziario e giudiziario: tutte questioni in cui, a partire dai corpi, operano gerarchie di classe, razza, genere, sessualità.

Oggi lei è docente emerita ma il suo percorso accademico non è stato né semplice né lineare…
Ho scritto la mia tesi di dottorato in Storia delle religioni sulle prime chiese mormoniche. All’epoca, non sembrava possibile fare storia transgender, non conoscevo gli archivi, le fonti e a malapena si poteva fare storia delle sessualità. Così, lavorare sui mormoni mi ha consentito di mettere a punto una metodologia per ricostruire la storicità di una formazione sociale e di un’identità emergente. In quello stesso periodo, stavo anche cercando di capire come e quando intraprendere la transizione. Erano i primi anni Novanta e mi rendevo conto che non sarebbe stato facile insegnare storia delle religioni per una persona trans e lesbica. Così ho finito il dottorato e poi ho cominciato il «viaggio». La discriminazione professionale mi ha impedito di trovare subito posto in università perché, come mi capita di dire, fare la persona trans è l’unico lavoro permesso alle persone trans. Allora se le cose stanno così, ho pensato, tanto vale fare storia trans. Sono stata «ricercatrice di comunità», ho lavorato presso i Gay and Lesbian Archives, pubblicato dove possibile, mi piaceva quel che facevo e ho imparato tantissimo ma non ero contenta della mancanza di opportunità. Mi sono detta: «se non divento docente entro i vent’anni dal dottorato smetto con la ricerca». Ce ne ho messi diciassette.

Tra gli ambiti sociali che più resistono ad accogliere persone trans c’è lo sport. Cosa risponde a chi invoca il principio di equità contro la partecipazione alle competizioni sportive delle persone «transfeminine» (assegnate maschio alla nascita ma che si identificano, per certi versi, con la femminilità o la esprimono)?
Non mi sono mai occupata in particolare di sport ma mi viene in mente un articolo di Iris Marion Young, Throwing like a Girl sul rapporto tra ideologia, norme di genere e processi di costruzione di un senso sociale e personale del corpo maschile e femminile. Nello sport, molte questioni culturali, come per esempio l’idea di vulnerabilità o di forza, vengono ricondotte al piano biologico e tale piano è organizzato secondo un criterio di genere quando altri potrebbero essere introdotti tanto più che le differenze interne al maschile e al femminile sono più ampie di quelle che trasversalmente riguardano entrambe. Il peso corporeo o i valori endocrini potrebbero essere dunque indicatori per elaborare criteri alternativi. Il fatto che lo sport categorizzi le persone in base al significato culturale che viene attribuito alla biologia mi sembra il vero problema nell’ambito sportivo, non le persone trans che vogliono gareggiare.

Viviamo tempi complessi in cui accanto a grandi potenzialità di cambiamento osserviamo manifestazioni di violenza, radicalizzazione e legittimazione istituzionale dell’estrema destra. Basti pensare a come i social siano uno strumento di presa di parola contro le ingiustizie sociali ma anche il luogo in cui si alimentano falsità e si sviluppa l’odio. Le «radici di una rivoluzione» che fanno da sottotitolo al suo libro sapranno resistere al caos?
Derrida scrisse che quando la giustizia si profila all’orizzonte ha sempre un che di misterioso e mostruoso. Se transgender significa oltrepassare il biologismo, cioè l’uso normativo di una concezione della biologia e delle strutture di senso e organizzazione sociale che ne sono derivate sin dalla modernità, ci rendiamo conto che attraversiamo un tempo di profonda trans-formazione. Per di più, viviamo nell’antropocene e alla luce dei danni dell’antropocentrismo e dell’etnocentrismo, è urgente interrogarsi sul futuro. La posta in gioco è alta e un’epistemologia transgender può permettere di riconfigurare anthropos nell’ecosistema diventando una strategia politica, una tattica, un’estetica capace di rispondere all’esigenza che oggi ha l’umanità tutta di trasformare il senso del corpo in un mondo in mutamento. Stiamo vivendo quella che Guattari chiamerebbe la «rivoluzione molecolare». Però non mancano le reazioni di chi vuole conservare l’ordine mondiale in via di decadimento – che si tratti di produttori di combustibili fossili, di sigarette o di armi – o di chi crede che esista «una» natura monolitica. Coloro che hanno costruito il proprio sé, l’idea del cosmo e di giustizia su un’ideologia binaria reagiscono con paura a cambiamenti che percepiscono come violazioni della natura, perversioni demoniache dell’ordine delle cose perché ritengono che quello noto sia l’unico ordine possibile. Capisco il timore genuino di chi vede crollare i fondamenti di un ordine mondiale durato cinquecento anni perché non sa re-immaginare sé e il futuro ma so anche che quel timore viene strumentalizzato ed enfatizzato da chi ha interesse a trasformarlo in odio, in crociata, in guerra. È in corso un dis-facimento, è vero, ma economicamente, ecologicamente e socialmente il mondo di prima è insostenibile. Per quanto l’incertezza possa farci paura, abbiamo bisogno di un processo attivo di dis-facimento e ri-forma. Un altro mondo non solo è possibile ma è già presente. Anche se so che nessun cambiamento è mai acquisito una volta per tutte, conservo la speranza che questa rivoluzione in atto sia così grande da non potersi più fermare.