Politica

Il senato ha deciso di non applicare una legge

Caso Minzolini Il recente voto del Senato sul caso Minzolini offre l’occasione per qualche riflessione sulla spinosa questione del rapporto politica/giustizia. Anzitutto, la c.d. legge Severino andrebbe drasticamente ridimensionata, essendo inaccettabile la […]

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 24 marzo 2017

Il recente voto del Senato sul caso Minzolini offre l’occasione per qualche riflessione sulla spinosa questione del rapporto politica/giustizia. Anzitutto, la c.d. legge Severino andrebbe drasticamente ridimensionata, essendo inaccettabile la decadenza da una carica elettiva anche per condanne di vecchia data e per reati «bagattellari».

Ma, finché esiste, la legge va applicata, non essendo consentito a nessuno, tanto meno ad un ramo del Parlamento, disapplicarla in ragione del suo ottuso rigore.

Il voto del Senato viola la legge Severino perché, una volta accertata l’esistenza del giudicato di condanna, la dichiarazione di decadenza era un atto obbligato. I senatori del Pd che hanno votato contro la decadenza, adducono a spiegazione del loro voto argomenti giuridicamente inconsistenti.

Dicono anzitutto che, se la legge Severino ha previsto un voto del Senato, ciò significa che ai senatori è attribuita «una funzione di controllo di ultima istanza» (Ichino su Repubblica del 19 marzo) e quindi il potere di decidere se dichiarare o no la decadenza.

Ora, a parte la singolare configurazione del Senato come una sorta di quarto grado di giudizio, l’argomento è inconsistente, perché la legge Severino non poteva fare a meno di prevedere un voto del Senato, dovendo attenersi all’art. 66 della Costituzione, secondo il quale il compito di giudicare «i titoli di ammissione» e le «cause sopraggiunte di ineleggibilità» spetta alla Camera di appartenenza del parlamentare.

D’altra parte gli effetti del giudicato penale non si producono per magia. Qualcuno deve pur prendere atto della esistenza del giudicato di condanna ed applicarne le conseguenze. E questo qualcuno non può essere che la Camera di appartenenza del condannato. Ma, obietta il prof. Ichino (Repubblica del 21 marzo), il citato articolo della Costituzione dice che il Senato deve «giudicare», che è cosa ben diversa dal «prendere atto».

In effetti, quando giudica sui titoli di ammissione o sulle cause di ineleggibilità, la Camera di appartenenza non agisce come organo politico, ma svolge un’attività di natura giurisdizionale, agisce cioè con gli stessi criteri e gli stessi poteri di un giudice.

Ma, secondo elementari nozioni di diritto, dall’attività giurisdizionale esula qualsiasi discrezionalità politica, essendo l’attività di giudizio assistita da una mera «discrezionalità tecnica». Il giudice, cioè, accertata l’esistenza dei presupposti del suo giudizio, deve trarne le conseguenze previste dalla legge e non può decidere di non applicarle.

Anche il Parlamento, dunque, quando «giudica» sulla esistenza delle cause di ineleggibilità, agisce con i criteri propri dell’attività giurisdizionale e perciò deve limitare la funzione di controllo affidatagli dalla Costituzione alla mera «delibazione» della sentenza, come si dice in gergo; deve cioè procedere alla ricognizione dei dati formali, al solo fine di stabilire se esiste un giudicato di condanna per un reato che comporta la decadenza prevista dalla legge. Accertato questo presupposto, non può fare a meno di trarne le obbligate conseguenze.

Ma il voto dei senatori è ancor più criticabile per le giustificazioni di merito addotte a suo sostegno. Dicono che il giudicato di condanna è contraddetto dall’esito di un giudizio amministrativo davanti alla Corte dei Conti e di un giudizio civile davanti al Tribunale del Lavoro.

È facile obbiettare, anzitutto, che i presupposti dei giudizi amministrativi e civili sono spesso assai diversi da quelli del giudizio penale, sicché l’apparente contrasto potrebbe non esistere.

In ogni caso, non si capisce perché, in un voto che ha come presupposto la condanna in sede penale, i senatori scelgano, nel preteso contrasto con esiti di altri procedimenti, di privilegiare questi ultimi.

Ancor più grave è quanto dicono a proposito della presenza nel Collegio giudicante del giudice Giannicola Sinisi, che in passato era stato parlamentare in uno schieramento opposto a quello di Augusto Minzolini. Orbene, trattandosi di organo collegiale, non sappiamo se Sinisi, che non era né Presidente né relatore, in Camera di consiglio abbia votato per la condanna di Minzolini.

Ma è in ogni caso assai grave che un senatore della Repubblica (ancora Ichino) insinui, senza addurre prova alcuna, che la presenza di un giudice dal passato politico nel Collegio giudicante «forse spiega la inusuale severità della pena», appositamente inflitta in misura da escludere la sospensione condizionale.

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