Per secoli gli animali selvatici in Europa hanno sistematicamente perso terreno a favore dei Sapiens, a livello di numeri e di spazi: quando gli umani non li hanno uccisi direttamente, ne hanno infatti colonizzato e trasformato gli habitat rendendo loro, letteralmente, la vita impossibile. A livello globale stiamo continuando a deforestare, a consumare suolo, a inquinare e a devastare ecosistemi come se la sesta estinzione di massa fosse un traguardo cui tendere con entusiasmo. Tuttavia in Italia, e in altre zone intensamente antropizzate dell’Europa centrale, è iniziato circa cent’anni fa un processo di rinaturalizzazione o di rinselvatichimento, a seconda che lo si osservi da un punto di vista eco o antropocentrico. Solo oggi iniziamo a prendere piena coscienza di questo fenomeno, perché sempre più spesso si sente parlare di uno dei suoi aspetti più spettacolari: il graduale ritorno dei selvatici, erbivori e carnivori, prede e predatori.

Dopo aver occupato i territori più favorevoli, con meno strade trafficate e poche persone, oggi alcune specie fanno capolino anche a bassa quota: per questo iniziamo a trovare (e a fotografare, filmare e postare) i selvatici dove non ce li aspetteremmo, ben lontani da dove li colloca il nostro immaginario. Non lassù sui monti, nei boschi, in campagna – ma per le strade, nei cortili, tra capannoni e cassonetti, sulla battigia. È il lupo pescato nei navigli di Milano, sono i cinghiali nel greto del Bisagno a Genova, lo sciacallo dorato in tangenziale a Udine. Non dovunque sono presenti tutte le specie, ciascuna ha la sua storia di estinzione sfiorata o compiuta, modalità di ritorno e di espansione caratteristiche. Tutte le specie sono tornate per restare. Alcune ci mettono in difficoltà. Ciascuna ci offre un’opportunità. Perché i selvatici in generale e i grandi carnivori in particolare sono maestri muti. Con la loro presenza insegnano una cosa preziosa che abbiamo dimenticato. Ma la didattica è traumatica e i contenuti difficili da digerire.

VISTO CHE OGGI ce li ritroviamo dietro casa, vale la pena cercare di capire perché la presenza dei grandi carnivori risulti così perturbante e disturbante, perché parlare di lupi e di orsi (soprattutto) porti quasi sempre gli interlocutori a schierarsi su due fronti estremamente polarizzati, ad alzare i toni del discorso, ad accantonare la logica in favore della pancia, a perdere la bussola e la tramontana – ben al di là dei danni concreti che, innegabilmente, i predatori causano e dei rischi reali – ma davvero contenuti – per l’incolumità umana che rappresentano.

In primo luogo c’è il fastidio logico, razionale, misurabile e concreto causato dai danni all’allevamento e all’apicoltura di montagna, imputabili rispettivamente a lupi e orsi. Oltre al danno economico reale, tuttavia, c’è il fastidio molto meno scontato e molto più misterioso generato dalla poderosa, ambivalente, per lo più inconscia macchina dell’immaginario che inizia a lavorare dentro alla testa quando un grande carnivoro compare nei dintorni di casa nostra. Già il nome non promette nulla di buono: «grandi carnivori» evoca all’istante, dalle profondità del nostro cervello, un’indistinta, incombente e ringhiosa massa oscura coperta di pelliccia in cui si intravedono lampi di zanne e sangue.

Chiaramente, la carne evocata è la nostra. Pazienza se i fatti ci dicono che rispetto al rischio di morire in un incidente stradale, quello di essere aggrediti da un selvatico durante una passeggiata nei boschi sia davvero ridicolo. Soprattutto nelle zone dove un grande carnivoro è appena tornato, si scatena l’effetto Cappuccetto rosso – diventiamo tutti potenziali prede. Inermi e spaventate. E con il timore non si scherza. Perché quando si tratta di emozioni elementari e adattivamente utili come la paura, i fatti e la logica fondono come neve al sole.

MI È CAPITATO di sperimentarlo sulla mia pelle nell’estate 2017. È una giornata serena di fine agosto e decido di fare un giro solitario di corsa in montagna sul massiccio del Marguareis, il Carso piemontese. Lungo il tragitto incontro degli amici speleologi e a forza di convenevoli si fa tardi. Sono quasi le dieci di sera e mi trovo da sola in alta Valle Pesio – la valle delle Alpi italiane dove è stato documentato il primo branco stabile di lupo all’inizio degli anni ’90. Un luogo dove la specie è ormai una presenza storica. Per quanto le giornate agostane siano ancora lunghe, ormai è il crepuscolo inoltrato. Nel bosco l’ombra è fitta.

A un tratto incespico nella radice di un abete e mi rassegno ad accendere la luce frontale. E mentre corro lungo la mulattiera che scende dal Passo del Duca mi sorprendo a pensare: «Ormai è fine agosto, i cuccioli del branco della Valle Pesio saranno già grandi, magari c’è tutta la famiglia a zonzo». E ancora: «Ora i guardiaparco si mettono a ululare dal versante di fronte per monitorare la presenza del branco, quelli rispondono alle mie spalle e io mi trovo giusto in mezzo». Suggestivo. E poi li vedo. Due occhi che scintillano alla luce della frontale. Alle mie spalle. Mi seguono. Sangue freddo. Dai, penso tra me, dopo aver spiegato a mezzo mondo perché non bisogna avere paura del lupo, che al massimo basta fare un po’ di chiasso per farlo scappare, non posso agitarmi. Tiro dritto, ma gli occhi mi seguono trotterellando. Provo a fare finta di niente, ma l’adrenalina la pensa diversamente. Decido allora, con un ultimo sussulto di dignitosa lucidità, di comportarmi come mi è stato detto di fare in caso di un incontro ravvicinato che mette a disagio. Mi blocco. Mi volto. Urlo come un’ossessa. Temo di avere anche mulinato le braccia per aria nel tentativo di risultare più grande e minacciosa. E faccio appena in tempo a scorgere l’espressione sbigottita di una volpe, un istante prima che scompaia nel buio.

I SELVATICI INCRINANO la nostra onnipotenza, la presunzione di poter essere sicuri e padroni dappertutto. Con la loro semplice presenza, ci insegnano una cosa importante che abbiamo dimenticato: che siamo animali tra gli animali. Ce lo ricordano rimettendoci nel ruolo più scomodo: quello della preda. Lo fanno attraverso qualcosa di antico e di prezioso: la paura. Ci riportano al nostro posto nell’ecosistema, facendoci toccare con mano il significato della parola limite. Ci ricordano che siamo tutti commestibili. Che il bosco non è (solo) casa nostra. Che metterci piede equivale ad accettare (anche) leggi diverse da quelle umane. Per questo un bosco con il lupo è più di un bosco senza il lupo. Una montagna con l’orso è più alta di una montagna che ne è priva. Questo mi ha insegnato l’incontro con la volpe pedinatrice. Un paesaggio con i selvatici smette di essere una cartolina rassicurante e torna a essere un ambiente condiviso, dove di volta in volta siamo colleghi, rivali, complici. Considerarci al di sopra del mondo naturale ci ha condotti dritti dentro la catastrofe ecologica, comprendere di esserne parte è il primo passo nella direzione opposta.

Otto contributi per guardarsi attorno

«Umani e non umani. Noi siamo natura». Questo il nuovo titolo della serie «Dialoghi di Pistoia», giunta a 23 volumi, edita da Utet (pp. 128, euro 16) e diretta Giulia Cogoli e promossa dalla Fondazione Caript, in uscita il 6 febbraio. Si tratta di una raccolta di saggi di Marco Aime e Marco Paolini, Guido Barbujani, Irene Borgna, Emanuela Borgnino, Federico Faloppa e Adriano Favole, e Ugo Morelli.

Gli autori riflettono su qual è la nostra responsabilità verso gli altri abitanti del pianeta, cosa ci distingue dagli altri esseri viventi, e come altre società pensano l’ambiente e la relazione con i non umani.

L’antropologa ambientale e scrittrice Irene Borgna, del cui contributo al volume pubblichiamo uno stralcio, dopo la laurea in Filosofia dell’ambiente si è trasferita in Valle Gesso per il dottorato in Antropologia alpina, dove vive e lavora come responsabile dell’educazione ambientale per le Aree Protette delle Alpi Marittime.

Il suo libro più noto è «Il pastore di stambecchi. Storia di una vita fuori traccia» (con L. Oreiller, Ponte alle Grazie, 2018). La XV edizione dei «Dialoghi di Pistoia» si svolgerà dal 24 al 26 maggio e avrà come tema «Siamo ciò che mangiamo? Nutrire il corpo e la mente» (dialoghidipistoia.it).