Il segreto in tre anni di girato
Ultravista La palestinese Rana Abu-Fraiha al festival di Massa Marittima con il film «In her Footsteps»
Ultravista La palestinese Rana Abu-Fraiha al festival di Massa Marittima con il film «In her Footsteps»
Nella prima inquadratura il deserto, dromedari, un accampamento beduino: come voltarsi indietro verso un passato a stento conosciuto, origini forzatamente recise.
Allora era stata una prepotente ragione di genere, il desiderio di una vita altra per se stessa e per le figlie, via dal destino di sottomissione previsto atavicamente dalla società beduina – minoranza segnata da espropri e deportazioni da parte del governo israeliano – a spingere la madre di Rana Abu-Fraiha, regista di In Her Footsteps, a lasciare nottetempo Tel Sheva, luogo d’origine del marito (che pure – lo narra un video8 fine anni ’80 – lei, appartenente a una comunità musulmana, aveva voluto sposare contro il parere dei parenti). Marito moglie e cinque figli si erano trasferiti a Omer, geograficamente solo a qualche centinaio di metri, ma un insediamento ebraico benestante.
E un ritorno per una delle due vincitrici della I edizione di DocuDonna, I Festival Internazionale del Documentario al Femminile, fiorito nei giorni scorsi a Massa Marittima (GR), con la direzione di Cristina Berlini, dunque un volgersi indietro per Rana Abu-Fraiha sarebbe arrivato solo quando durante la malattia della madre, aggredita da un cancro per dieci anni, avrebbe cercato tracce di lei dove bambini camminano scalzi in fila indiana, tra abbandono e rifiuti, nei luoghi dove Rodaina aveva vissuto i primi anni da insegnante, e dove una donna col velo l’avrebbe ricordata come la compianta maestra di suo figlio. Per anni in questa ricerca di immedesimazione nel corpo nelle sfide nei passi della madre avrebbe ripreso ossessivamente questo «gruppo di famiglia in un interno». In una spericolata ricerca tra il privato e lo scorrere esterno delle case.
Intorno a una tomba, alla contrastatissima volontà di lei di essere sepolta, da residente da 20 anni a Omer, nel cimitero ebraico, si sarebbero poi raggrumati gli infiniti nodi e contraddizioni di questa storia familiare spuria tra culture lingue religioni e leggi, al crocevia della matassa abnorme della questione israeliano palestinese. Sguardo in prima persona corpo e camera, in un imperfetto divenire, nella perenne difficoltà anche nella lunghissima discussione al festival, ad abbracciare la miriade dei punti di vista, le angolature di immedesimazione, le componenti personali e politiche di questo incandescente tracciato.
Narraci la genesi del film.
Sono cresciuta con la malattia di mia madre. Ho cominciato a filmarla che avevo 20 anni, gli ultimi tre della sua vita. Ovviamente quando ho iniziato non sapevo cosa le sarebbe accaduto, né perché lo stessi facendo, né che sarei diventata una filmmaker. Avevo solo un bisogno folle di essere più vicina a lei. Soltanto anni dopo ho capito che per me la motivazione più forte era cercare di parlare con lei di tutto quello in cui aveva creduto, prima che fosse troppo tardi. Alla fine avevamo 400 ore di girato. E dopo che è morta, ho continuato a guardarlo, cercando quello che aveva voluto dirmi tra le righe.
Quella della tua famiglia nel contesto della questione israelo-palestinese è una storia singolare.
Sì, eravamo una delle due sole famiglie beduine in un posto ebreo. Per i nostri genitori l’educazione era cruciale: dovevamo essere studenti al top in tutto. Ma la nostra storia veniva narrata in modo parziale, lo si vede nella scena della trasmissione tv a cui parteciparono mia sorella e mio fratello: eravamo una sorta di fenomeno, del tipo, prendi una minoranza di beduini e la getti in questa società ebraica d’élite, può farsi strada ma dietro questa patina di successo c’era invece una complessità ben più difficile. Districarsi tra identità ebraica e musulmana, confrontarsi col razzismo sempre presente in questa società, non solo quello degli hater, ma quello strutturale che ci considerava come finti arabi. Eravamo confusi, senza background. Non appartenevamo né alla società araba – non mi sentivo beduina, non parlo l’arabo se non male, anche se lo capisco – né a quella ebraica, eravamo in un limbo. Il film cerca di restituire questo coacervo di contraddizioni: il bene vissuto sottraendoci a una storia di genere già decisa, potendo studiare, vivendo nel benessere, e nello stesso tempo la difficoltà a individuare il nostro punto di vista politico in questo dedalo di istanze contrastanti, a trovare relazioni sentimentali possibili tra differenti culture e religioni. Adesso sono frequenti i matrimoni misti, con un forte dibattito interno alla coppia, a tentare una integrazione dove la politica non riesce.
La questione di genere per cui tua madre ha sempre lottato ritorna come un boomerang quando al funerale a voi figlie non è consentito partecipare…
Sì, tutto si riflette su di noi, senza di lei non ho saputo far breccia in questo muro. Come dico nel film, se non ho potuto spargere la cenere sulla sua tomba, ho versato su di lei le immagini vissute insieme.
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