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Il segreto del silenzio vitale

Il segreto del silenzio vitale"Plastic"

Live Arts Week VI Maria Hassabi ha sviluppato una pratica coreografica basata sulle relazioni tra corpo e immagine

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 22 aprile 2017

I lavori di Maria Hassabi sono stati presentati al MoMA New York, Walker Art Centre Minneapolis, The Kitchen, Kunstenfestivaldesarts Bruxelles, Impulstanz Vienna, FIAC Parigi, Stedelijk Museum Amsterdam. Di origine cipriota basata a New York, nel 2013 ha rappresentato la Repubblica di Cipro nel Padiglione di Cipro e Lituania alla Biennale di Venezia.
Nella tua produzione coreografica, l’ibrido tra azione e staticità gioca un ruolo essenziale; permette di mettere in atto una serie di espedienti che la situano a cavallo tra mondi diversi, quello dell’arte e quello dei teatri, tra scultura e corpo vivente, con diverse attitudini di attenzione del pubblico, che vanno dal colpo d’occhio sintetico e distratto dell’immagine allo sforzo di concentrazione. Quanto è importante il lavoro sulle aspettative dei contesti culturali e dei loro pubblici di riferimento?
I miei lavori nati per il teatro, come STAGED?, partono dall’idea del silenzio, per portare tutto a uno stato di calma, in modo da convogliare l’attenzione su piccoli dettagli, sulle sfumature che di solito sono messe da parte nella vita quotidiana. Il silenzio può creare uno spazio che è allo stesso tempo meditativo e pieno di tensione e disagio. Sono interessata a queste opposizioni come paradosso: l’uno può distruggere l’altro. Per oltre un decennio ho lavorato sulla durata e l’immobilità in coreografie in cui il corpo oscilla tra danza e scultura, soggetto e oggetto, corpo vivente e fermo-immagine. Questa intersezione crea una tensione tra il soggetto che performa e il suo trattamento come oggetto, tra la forma fisica del corpo vivo e la sua mediazione ‘fotografica’.
Per arrivare alla zona di silenzio a cui mi riferisco – che è la costruzione di uno spazio desiderato per un’estrema consapevolezza, certamente non un’imitazione della vita – e per creare un ambiente che la possa supportare suscitando un interesse che coinvolga lo spettatore come se guardasse con una lente di ingrandimento, questo silenzio deve creare una sorta di vitalità. Per raggiungere questo stato, lavoro con i performer in modo molto stretto; il loro materiale viene elaborato e provato meticolosamente: ogni azione -anche lo sguardo- segue partiture temporali dettagliate. I loro corpi sembrano essere fermi, anche passivi, ma mai inerti. Le difficoltà dei loro compiti producono una catena di reazioni fisiche incontrollabili, dando luogo a micro-movimenti che sono gli effetti collaterali del tentativo impossibile di stare assolutamente «fermi». Sono performance che invitano allo spettacolo per esaurirlo; non abbracciano né rifiutano la narrazione, ma prolungano la percezione dello spettatore verso lo spettacolo come un’accumulazione del qui e ora. La velocità della decelerazione, assieme alla tensione che si sente nella sala, può creare un’intensa consapevolezza dello spazio e del tempo, e della propria fisicità.
Nella tua poetica sembra esserci un elemento di critica alle società attuali. Un riferimento ad una crisi dell’attenzione e agli imperativi dell’iperattività, che la lentezza estenuante dei tuoi lavori mette in dubbio. Ci puoi parlare del rapporto fisico dei performer con il suolo da cui nasce una forma di attrito? È una figura di resistenza e di auto-controllo (o forse di perdita di controllo) della tensione che attraversa il soggetto contemporaneo?
I mie lavori sono per lo più collocati in orizzontale e sul pavimento. Mi piace l’idea che invitando lo spettatore a vederli dall’alto nasca una risposta immediata a quello che è una specie di gioco di ruolo basato sul potere assegnatogli in quanto osservatore. Sta sopra. In questo scenario esasperato, anche brutale, l’oggettualizzazione del corpo diventa una problematica.
Stare a contatto col suolo mi permette anche di creare del materiale in un certo senso ‘pedonale’. Attraverso la velocità rallentata, il semplice trasferimento del peso del corpo passando da una posizione a un’altra può diventare un evento; è come se stessimo performando coi tacchi alti: i movimenti più comuni richiedono una concentrazione rigorosa e un’attenzione al presente sia mentale che fisica. Questo porta una tensione aggiuntiva nel lavoro, che proviene dall’esecuzione di ogni singolo interprete.
Questa ostinazione espressiva e linguistica, ha qualcosa ha che vedere con la posizione di un’artista diasporica di origine cipriota, nell’attuale scenario di trasformazione dei confini del mondo?
Sono sicura che inconsciamente la mie origini e la mia città natale giocano un ruolo. Il sole, le aree deserte, la «green line» che separa la zona greca dell’isola da quella turca. E anche i miei primi anni a Los Angeles, i grandi deserti lì, e poi la velocità di New York, la città in cui ho vissuto più a lungo e dove ho sviluppato il mio lavoro. Non tendo a analizzare eccessivamente questo tema dell’origine: lo prendo come dato. Le esperienze di vita di ciascuno ci rendono quello che siamo e forgiano il nostro modo di pensare.
Vuoi dirci qualcosa sul punto interrogativo che accompagna la versione di STAGED? (2016) che presenterai a Bologna?
Il punto interrogativo è stato aggiunto al titolo di STAGED solo nel marzo 2017. La mia idea iniziale per la creazione di questo lavoro, che ha debuttato a ottobre 2016 a New York, era che tutti i suoi elementi sarebbero stati dettagliati andando a definire un prodotto pre-costruito, lasciando spazio poi all’arrivo del «nuovo», una volta incontrato il pubblico. Ma nel processo si sono create delle situazioni che hanno modificato l’intento originario. Ci siamo confrontati con cose che erano fuori del nostro controllo . Abbiamo seguito quindi un processo più aperto. La natura della performance, dal vivo, era più forte della concezione originaria, e il punto interrogativo è diventato necessario per rappresentare la reale situazione in gioco. Può essere veramente messo in scena? Possiamo solo provarci.

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