Il primo fine settimana del trentunesimo Tff è appena passato. È il primo con Paolo Virzì direttore, che succede a Gianni Amelio, che a sua volta successe a Nanni Moretti. I dati ufficiali indicano un 30% di biglietti staccati in più rispetto all’anno passato. Quanto al festival, è presto per giudicare, ma la scelta di affidare, per la terza volta, la direzione ad un regista è ormai una politica consolidata su cui un bilancio va intrapreso che i giorni seguenti smentiranno o confermeranno.

L’identità di un festival è una sostanza sottile e difficile da definire, frutto di un lavoro paziente che si sedimenta anno per anno pur restando fragile. Per molti anni, il Tff è stato spinto dalla sua attività cinefila. Sotto l’impulso dell’associazione Cinema giovani, sono state organizzate retrospettive originali di rilievo internazionale, da Robert Kramer a Claude Chabrol, da Walter Hill a Júlio Bressane. Tutte accompagnate da ottime opere monografiche: un’attività degna di una vera cineteca. Pur essendo presenti un concorso e alcune sezioni parallele, la sensazione era quella di un festival orizzontale, in cui i film avevano tutti la stessa importanza perché erano stati voluti, e venivano tutti accompagnati dal medesimo gruppo di curatori. Dal 2007, questa tradizione si è interrotta.

Nanni Moretti è arrivato su un terreno asfaltato dal conflitto che ha opposto Cinema giovani agli enti finanziatori, e che i secondi hanno vinto con la forza. Su questo Moretti ha costruito un Tff a propria immagine e somiglianza, relegando alle «sezioni minori» il compito di tenere il filo con il passato. Tatticamente ineccepibile, nell’urgenza di ridare un volto al festival, questa politica si è dimostrata strategicamente cieca. Ci si è legati alla necessita di trovare, ogni due o tre edizioni, un nuovo volto e da quel momento ci si è condannati a specchiare la caratura nazionale e internazionale del festival sul profilo del direttore.

Con la politica dei registi, l’unità della programmazione si è degradata. Oggi il festival è organizzato come una Berlinale in miniatura, dove le tre grandi sezioni, il concorso, Panorama e il Forum sono autonome e separate. A Berlino questo dispositivo nel complesso funziona perché ogni sezione riesce ad essere attrattiva nel suo capo specifico (rispettivamente il cinema commerciale, d’autore e di ricerca). Meno a Torino, dove a soffrirne di più è proprio il concorso che, data la taglia del festival e la sua vicinanza con Venezia e Roma fatica ad portare delle prime visioni internazionali di rilievo commerciale.

Come si diceva all’inizio, è presto per dare un giudizio. I primi film in concorso appartengono ad un cinema d’autore internazionale medio. Tra questi, Pelo Malo, della venezuelana Mariana Rondon, è il migliore. Una giovane vedova ha appena perso il lavoro. Con due figli a carico, uno di sei-sette anni, l’altro nato da poco, la vita non è facile. A peggiorare le cose c’è il ragazzino, che è malpelo, e che vuole allisciarsi i capelli per somigliare ai cantanti di musica pop. Forse è «maricon», sospetta la madre, che ne fa una malattia. Il film è ambientato in un grande complesso popolare di Caracas, dal quale i protagonisti escono e al quale ritornano con estenuanti viaggi in bus. Ma lo sfondo del film è più un suono: la televisione dalla quale apprendiamo che il concorso di Miss Veneuela è vicino e che una folla di sostenitori bolivariani si taglia i capelli (il «pelo») per solidarietà con il presidente malato di cancro.

In genere, non appena si presenta un momento libero, il giornalista inviato al festival ne approfitta per sgattaiolare alla retrospettiva. Non è questo il caso. Non che tra i film del programma New Hollywood non ce ne siano da vedere e da rivedere. Semmai, il problema è che si tratta proprio di classici in gran parte visti e rivisti. Soprattutto, non si può parlare di una vera retrospettiva ma piuttosto di un simpatico «best of» veltroniano, buono per un’edizione di dvd da dare insieme ad un giornale; quasi uno sfregio alla tradizione del festival di Torino che raccontavamo pocanzi.
Lontano dalla Mole e dal cinema Massimo, dove sono proiettati i film del concorso, in quella parte «fascista» della città in cui Dario Argento ha girato alcune scene di Profondo rosso, c’è una galleria che al suo interno ospita un cinema dal nome littorio: il Lux. È qui che ha il suo quartier generale il «forum» di Torino, ovvero la sezione dedicata ai documentari nazionali e internazionali.

Il più notevole visto finora è italiano, si chiama Il segreto. Tra Santo Stefano e Sant’Antonio, nei quartieri popolari di Napoli, una tradizione vuole che gli abeti di Natale vengano raccolti e infine bruciati. Un tempo diffusa, l’usanza è tenuta viva da alcuni gruppi di bambini dei soli quartieri spagnoli. Per giorni, piccoli discoli tra i 7 e i 14 anni vagano per case e negozi in cerca d’abeti, allontanandosi anche di molto dal luogo scelto per la raccolta dove poi li trascinano per nasconderli alle bande rivali e che per questo motivo prende il nome di «segreto». Questa parola, che i bambini ripetono come un mantra diventa la chiave di lettura del film. Segreto è il collettivo dei cineasti, di cui sappiamo che si fanno chiamare cyop&kaf, che sono artisti di strada, graffitari, che lavorano da anni nei quartieri spagnoli, e che la sera del 23 novembre erano al Lux, nascosti nel pubblico. (anche perché ricercati dalla polizia per la loro arte di strada)Segreto è l’impulso che spinge i bambini a spendersi con foga e generosità per un falò, riallacciandosi ad un’antica tradizione italica che prima di cyop&kaf hanno raccontato Straub/Pavese, De Seta e Frammartino. Il segreto è ovviamente un luogo fisico, una spianata nel bel mezzo dei quartieri spagnoli dove vent’anni fa sorgeva un palazzo. Alla fine del loro film, cYop&kaf integrano le immagini di un videoamatore che per giorni, nel 1993, ne ha filmato la caotica demolizione. Vent’anni dopo, a poche ore dal grande falò, un architetto e degli agenti della municipale sorgono dal nulla, forse usciti da un romanzo di Kafka, e cercano di dare anche loro un nome al segreto. Finalemente, sono i bambini ad avere la meglio e il senso del segreto può andare in fumo, come è giusto che sia.

Passando ai doc internazionali, Le Secret (Il segreto) potrebbe essere un titolo alternativo al film della regista svedese Mia Engberg, Belleville Baby. Si tratta di una curiosa storia d’amore che per certi versi ricorda quella de La Bocca del lupo. Il film ha qualche sbavatura ma lo si segue dall’inizio alla fine con il fiato sospeso, e se ne esce con impressa negli occhi l’immagine vivida di uno scampolo di quella Parigi sotterranea nella quale un borghese, o uno straniero in visita, potevano farsi risucchiare e perdersi. E di cui ormai restano i romanzi di Hugo, le poesie di Baudelaire, i racconti di Feuillade … e questo film.
Non si può mettere piede a Torino, senza pensare al filosofo Costanzo Preve, scomparso il 23 novembre, che qui ha vissuto e insegnato tutta la vita. Preve era un ortodosso, vale a dire un hegelo-marxista, che per difendere le ragioni dell’ortodossia faceva ricorso al più ampio eclettismo filosofico. Gli è toccato in sorte, in parte per ragioni di anagrafe, d’essere un comunista senza partito.

Ovvero un marxista sghembo. I suoi libri soffrivano di questa mancanza che nessuna teoria, per quanto potente, può colmare; ma, da incorreggibile insegnante qual era, ogni sua pagina era un invito irresistibile ad ingannare la domenica del comunismo, in cui viviamo tutti, con una bibliografia senza fine. Contrariamente ad altri filosofi, non si era improvvisato teorico del cinema. Volle precisarlo all’inizio di una conversazione registrata sette anni fa qui al Tff, intorno ad In Fabbrica di Francesca Comencini, e pubblicata nei Cahiers du cinéma. Non posso dire al posto suo se il film di John Akromfrah, The Stuart Hall Project gli sarebbe piaciuto. Certo, ne avrebbe parlato per ore. Il film era all’origine un progetto di Stuart Hall sulla New Left, ed è diventato in corso d’opera una biografia su Stuart Hall stesso. Mille cose si potrebbero dire su quest’opera, costruita da un cineasta rapsodo quale John Akomfrah, cucendo insieme materiali della Bbc, foto dell’archivio personale di Stuart Hall, il tutto intrecciato su una trama initerrotta di brani di Miles Davis.
Una è l’evoluzione della televisione stessa.

Negli anni sessanta, l’intellettuale di sinistra che era Stuart Hall parla da solo alla Bbc, indirizzandosi direttamente allo spettatore, e invitando quest’ultimo a seguirlo in una critica sociale dell’ideologia dominante. Negli anni 80, la formula cambia, la parola dell’intellettuale è mediata dal dispositivo del talk show con diversi invitati, disinnescata dal dibattito, in cui lo spettacolo dello scontro prevale sul contenuto. Il seguito di questa parabola televisiva è noto, è universale, è avvenuto ovunque. Stuart diceva, tra le altre cose, che la Storia non andrebbe pensata in termini di rotture. Niente, neppure la più radicale delle rivoluzioni, ricomincia da zero. Ecco perché il film di Akomfrah è una conversazione initerrotta, aperta, proiettata in avanti. È un pensiero forte ma scoraggiante: è più gradevole illudersi di poter cancellare il presente con un colpo di penna e far finta che non sia mai esistito.