Cultura

Il secolo di Marcello Cini

Il secolo di Marcello Cinifoto Getty Images

ANNIVERSARI Nasceva cento anni fa lo scienziato militante e filosofo della scienza, tra i fondatori del «manifesto». La sua eredità più scomoda è la «non neutralità della scienza», tema attuale ma rimosso dall’accademia.

Pubblicato circa un anno faEdizione del 23 luglio 2023

Cade in questa settimana il compleanno di Marcello Cini, nato il 29 luglio di un secolo fa esatto e scomparso nel 2012. Oltre che fisico brillante, militante comunista, filosofo della scienza e pioniere dell’ecologia politica, è stato uno dei fondatori di questo giornale. Molte delle sue intuizioni sono diventate battaglie di tanti, a partire dalla lotta al nucleare. Altre no: una volta andato via lui si sono affievolite, come se non avessero trovato eredi in grado di farsene carico. Per tutti, il suo nome è legato all’Ape e l’architetto, un saggio scritto a cavallo tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio dei ‘70 del secolo scorso e pubblicato nel 1976.

IL TITOLO ERA UNA CITAZIONE di un brano di Karl Marx in cui si distingueva tra la costruzione dell’alveare e di un edificio, che nasce «nella testa» del progettista. Scritto insieme a Michelangelo De Maria (scomparso da poco), Giovanni Ciccotti e Giovanni Jona-Lasinio, l’Ape parlava però di scienza e di scienziati. Sono tuttora nelle pagine di quel libro i contributi intellettuali più preziosi di Marcello Cini e oggi meno frequentati.
Per alcuni versi L’ape e l’architetto oggi può risultare illeggibile. Più che a un testo scientifico fa pensare a un pamphlet teologico, di quelli in cui si dibatte tra ortodossia ed eresia. L’oggetto del contendere: cosa pensava davvero Marx della scienza? Un fattore di progresso che porta inesorabilmente alla crisi dei rapporti di produzione capitalistici oppure, come suggerivano Cini e compagni, essa stessa parte del meccanismo di dominio? Una diatriba filologica che impegnò le firme più popolari di quotidiani e settimanali non solo d’area – da Giorgio Bocca a Lucio Colletti – ma che ora appare oziosa.

L’ape e l’architetto però conteneva altri spunti ben più stimolanti, che non interrogavano solo i marxiani ma anche i tanti scienziati che si ritenevano estranei all’agone politico. Nel libro, Cini sosteneva infatti la tesi della «non neutralità della scienza», secondo cui non sono le applicazioni tecnologiche a fare di una scoperta un fattore di progresso o di sfruttamento, come vuole la vulgata: il carattere di classe è già contenuto nelle stesse teorie, per quanto astratte appaiano, e persino nelle scienze «dure» (matematica, fisica, chimica). Apriti cielo: allora in una società diversa da quella capitalistica le leggi della gravità non sarebbero più valide, tentò di banalizzare qualcuno?

Certo che no: Cini e colleghi erano fisici di altissimo livello e non riducevano la scienza a una teoria del complotto ordito dai poteri forti. La «non neutralità della scienza» significava che il contesto storico in cui nasce una teoria ne determina gli obiettivi e i mezzi con cui perseguirli, influenzando anche la speculazione apparentemente più disinteressata. I rapporti sociali non determinano le risposte che la scienza fornisce – due più due fa sempre quattro. Ma plasmano le domande che essa si pone e l’organizzazione del lavoro che si dà.
Mentre Cini scriveva, si realizzavano i primi acceleratori di particelle e prendevano il via le missioni spaziali: i laboratori di ricerca iniziavano ad assomigliare a fabbriche, facendo coniare il termine di «Big Science». Impossibile non notare come la competizione politico-economica della Guerra Fredda stesse plasmando anche la conoscenza di base.

QUELLA RIFLESSIONE si intrecciava poi con il dibattito internazionale sulla natura del metodo scientifico e sull’influsso che fattori extra-scientifici esercitano sulle teorie. Nel 1969 Einaudi aveva tradotto La struttura delle rivoluzioni scientifiche, il saggio di storia della scienza più influente del ‘900 in cui il fisico e epistemologo statunitense Thomas Kuhn sosteneva (senza scomodare Marx) che la scienza non avanza gradualmente solo sulla base del metodo galileiano ma è periodicamente scossa da rivoluzioni che ne riscrivono metodi e statuto anche sulla base di ciò che accade «fuori»: un modo di vedere la scienza più vicino a quello degli eretici dell’Ape rispetto al cosiddetto «sviluppismo» in voga nella sinistra ufficiale.

Il corollario della «non neutralità della scienza» era che la proverbiale torre d’avorio non esiste e che il ricercatore non può scaricare su altri la responsabilità per le conseguenze negative dello sviluppo.
Una tesi che negli anni ‘70 portò a frequenti solidarietà tra quadri tecnici e operai nelle aziende ad alta tecnologia. Ma diventata via via più scomoda nei decenni successivi quando la comunità scientifica italiana, cresciuta numericamente, ha perso ogni dimensione artigianale e si è strutturata in dipartimenti, cordate di potere e vari livelli di precarietà che irregimentano la forza lavoro e sconsigliano ogni tentativo di autoanalisi sul ruolo sociale degli scienziati.

Lo spiega bene la filosofa della scienza Elena Gagliasso, tra le persone più vicine a Cini sul piano umano e intellettuale sulla cui eredità ha organizzato un convegno recente all’Accademia dei Lincei. «Oggi – dice al manifesto – chi fa ricerca non ha il tempo per fermarsi. La rincorsa alla consegna del prodotto scientifico e la caccia ai fondi non ammettono pause di riflessione».

IN EFFETTI, lo scienziato engagé a cavallo del millennio ha cambiato faccia: non è più quello che si fa domande sulle ricadute sociali dei suoi studi anche a costo di spaccare la corporazione (come fece Cini sul nucleare), ma quello che a nome dell’intera comunità scientifica rivendica maggiori finanziamenti pubblici, in Italia tra i più bassi d’Europa, senza fare troppe questioni su come spenderli. All’assenza di dibattito interno al mondo della ricerca la società ha reagito in modo speculare, coltivando il cospirazionismo che vede poteri oscuri dietro ogni esperto: una parodia della critica dei saperi.

In questa mutazione, il tema della «non neutralità della scienza» è diventato marginale? Gagliasso non concorda del tutto. «L’organizzazione della comunità scientifica adesso è oggetto del lavoro dei sociologi, degli specialisti di science policy o di science and technology studies. Quel filone di ricerca si è istituzionalizzato ma in questo modo se ne è sterilizzato il contenuto politico». Non è però una svolta a destra. «Tra gli scienziati l’impegno civile non manca» rileva l’epistemologo Gerardo Ienna dell’università di Verona che con Pietro Daniel Omodeo sta curando la prossima pubblicazione in inglese dell’Ape.

«MANCA PERÒ l’impulso auto-riflessivo a collocare la propria attività di scienziato nelle strutture di dominio». Forse il vento sta cambiando: le facoltà della Sapienza di Roma sono state recentemente occupate dagli studenti per denunciare i rapporti tra l’ateneo e l’industria dei combustibili fossili responsabile dei cambiamenti climatici. «In questi ultimi tempi nelle generazioni più giovani l’Ape ricomincia a circolare e a far discutere» osserva Ienna. «Chi si avvicina alla scienza con spirito critico di solito è consapevole del ruolo di Cini. Ma attualizzarne l’analisi è difficile».

Non mancherebbero le occasioni: mai come oggi scienza e tecnologia veicolano cambiamenti sociali radicali al riparo dalla dialettica democratica. Basti pensare all’impatto degli algoritmi sul lavoro e sul consumo. O all’evanescente dibattito intorno a una transizione ecologica che coniughi sostenibilità e giustizia. Nella crisi ambientale globale la comunità scientifica è chiamata a fare la sua parte ed è bene che qualcuno inizi a ricordarlo. Anche le api nel loro piccolo si incazzano.

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