Editoriale

Il sapone di Aleppo

Guerra e rifugiati Che fine hanno fatto gli Amici della Siria?

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 11 settembre 2015

Chi non conosce il sapone di Aleppo? Basato sull’olio d’oliva con l’aggiunta di olio d’alloro, è un prodotto millenario, tipico della città siriana di Aleppo, la «capitale del nord», un tempo patrimonio dell’Unesco e ora in buona parte distrutta. Com’è facile immaginare oggi è difficile trovarlo, con la guerra in corso ci dicono gli esperti la produzione è crollata, le piccole fabbriche si sono spostate in zone «più sicure» e quel che si vende in Occidente è solo deposito di magazzino. È straordinario per l’igiene personale. Ma temiamo che nemmeno il sapone di Aleppo riuscirà a lavare le responsabilità sporche dell’Occidente, europeo e americano, per la devastante guerra in corso in Siria.

Eppure ogni giorni i rifugiati di quella tragedia percorrono le strade europee, di quel Vecchio continente che, parola di Juncker, presidente della Commissione Ue, dopo anni e anni di chiacchiere si ritrova «senza Europa e senza Unione». Ce n’eravamo accorti con la crisi greca, ma adesso l’evidenza è accecante. Alla luce proprio dei profughi, che altro non sono che i testimoni dei nostri fallimenti di guerra.

Perché nel sottovuoto spinto europeo si preferisce, nascondere la verità, annunciando magari titoli roboanti su «truppe russe impegnate in Siria». Dimenticando come quella guerra sia stata aizzata, foraggiata, mediatizzata, addestrata, in una parola voluta dai governi europei. La data è quella del 2012 con la nascita della coalizione degli Amici della Siria: ne facevano parte Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia, Stati uniti, con le petromonarchie del Golfo a cominciare dall’Arabia saudita. Tutti a correre ai ripari della «svista» annunciata nel 2011 sulle magnifiche sorti delle «primavere arabe» e per gestire con Damasco il «modello Tripoli» utilizzato per rovesciare il regime di Gheddafi. Lì dove la rivolta fu certo politica, ma subito caratterizzata in chiave integralista e immediatamente dopo armata. Partirono gli aerei di Sarkozy e dietro tutta la schiera degli «Amici». Poi con la destituzione nel sangue di Gheddafi, è arrivata la scoperta dell’avanzata del jihadismo che, dai santuari ideolocici e di armi, ha trovato un nuovo insediamento nell’area. La distruzione dell’Iraq, dopo tre guerre americane, ha fatto il resto favorendo la novità tragica dello Stato islamico.

Allora tutti uniti e tutti insieme, in guerra in Siria. Fino ad accorgersi che, con il nostro sostegno, avanzavano Al Qaeda e jihadismo estremo. In una guerra che sempre più è apparsa «per procura»: Stati uniti, Turchia e fronte europeo insieme all’Arabia saudita per fermare lo stato ancora «canaglia» dell’Iran, alleato di Assad. Ma senza dirlo. Questa fogna diplomatica, di sangue e di armi, sulla pelle dei popoli e in particolare di quello siriano, alla fine non poteva non scoppiare. Smemorati del piccolo particolare che è stata la Russia nel settembre 2013, con l’aggiunta della preghiera di pace di papa Bergoglio, a dissuadere dall’intervento armato Obama straconvinto dall’ultimo casus belli inventato sulle armi chimiche (smentite poi dalla stessa Amministrazione Usa). Ma allora, è uno scoop scoprire che soldati russi sarebbero già sul campo? Sono lì probabilmente da molto tempo in difesa di interessi e alleanze di Mosca e della base navale di Tartouf. Lì dove combattono da tempo contro l’Isis gli hezbollah libanesi legati a Tehran, insieme ai nemici giurati della Turchia, i combattenti della sinistra kurda.

Ma che fine ha fatto la coalizione degli Amici della Siria? Chi verrà chiamato a risponderne alla sbarra dell’ormai morto diritto internazionale? Tranquilli, hanno scherzato. Perché alla fine gli Usa hanno cominciato da sei mesi a bombardare l’Isis e Al Nusra (Al Qaeda), le milizie che fino a poco tempo prima erano alleate contro Assad; e così dichiara di fare Ankara, che invece coglie l’occasione per colpire il Pkk. Poi, di fronte ad una Germania ormai da tempo defilata dagli «Amici» e impegnata a modo suo a distinguersi nell’accoglienza dei profughi, sono già partiti i jet britannici e quelli francesi. Ecco dunque in queste ore la «svolta» su Assad: raid e dialogo con il raìs per fermare i massacri. Un affollamento. I soldati inviati da Mosca, gli aerei francesi, i droni Usa, le milizie sciite inquadrate dagli iraniani. Assad resta dittatore ma diventa all’improvviso interlocutore. Come il «nemico ucraino» Putin che gioca la carta della mediazione, dividendo il fronte occidentale, perché si avvii in Siria una soluzione politica. Qui in Siria non c’è l’Italia: in ritirata dalla coalizione degli «Amici», Renzi scopre «che in Siria c’è un presidente che controlla parte del territorio» e che «dobbiamo guardare a quel che è successo in Libia dopo Gheddafi». Appunto: l’agenda renziana non è la Siria ma ancora la Libia «degli scafisti» ma soprattutto avamposto per fermare in nuovi campi ad hoc l’esodo dei profughi dalle nostre guerre e dalla miseria da noi provocata.

Intanto sul terreno restano centinaia di migliaia di morti e feriti, in gran parte vittime civili, con milioni di profughi. Che da due anni affollano i Paesi di frontiera come Libano, Giordania e Turchia.

No, non basterà il sapone di Aleppo per lavare le mani e la coscienza sporca dell’Occidente.

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