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Il sangue e la speranza, ma solo l’arte ci salverà

Il sangue e la speranza, ma solo l’arte ci salverà

Teatro All'Olimpico di Vicenza la nuova performance di Pippo Delbono con Petra Magoni

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 2 novembre 2013

Il 66°ciclo di spettacoli classici al teatro Olimpico si chiude con uno spettacolo emblematico. Tocca infatti a Pippo Delbono concludere la stagione autunnale del più augusto, bello e significativo spazio teatrale d’Italia, e forse del mondo: l’Olimpico di Vicenza, tesoro palladiano a scena fissa, «intoccabile» patrimonio culturale non solo dell’Unesco, ma di ciascuno di noi. È stata la seconda annualità, conclusiva, della direzione affidata a Eimuntas Nekrosius, il regista lituano (uno dei pochi cui si possa riconoscere a pieno titolo la qualifica e l’appellativo di maestro), ed è significativo che sia stato proprio Pippo Delbono a farlo. Con il suo linguaggio innovativo e antitradizionale, che pure ha cercato per l’occasione di riconnettersi alla più classica delle tradizioni.
Più che uno spettacolo teatrale, Delbono aveva progettato un concerto in forma drammatica. E aveva promesso una performance dal titolo Birds ispirata agli Uccelli di Aristofane. E in quel concerto/commedia aveva chiesto di stargli a fianco a una musa della ricerca spettacolare e musicale come Laurie Anderson. Una presenza vitale della scena internazionale, molto legata all’Italia dove è stata presente nei decenni scorsi, col suo violino elettrico e qualche vitale performance con i Tuxedomoon a Polverigi. Poi l’artista americana è stata costretta a rinunciare all’avventura con Delbono, per stare vicina al suo compagno di una vita Lou Reed, che da mesi combatteva con gli esiti negativi del trapianto subito, e proprio nei giorni scorsi ha lasciato orfana una generazione (e non solo). Slittato quindi all’anno prossimo lo spettacolo con Laurie Anderson, Delbono ha intrapreso con una altra artista straordinaria, Petra Magoni, il suo viaggio musicale nella classicità. E forse suggestionato dalla scena fissa dell’Olimpico, costruita a fine cinquecento da Vincenzo Scamozzi per l’inaugurazione dello spazio palladiano con un Oedipus Tyrannus, ha scelto di lavorare proprio sul mito di Edipo, già domiciliato tra quelle strade e quelle case di Tebe.
È nato così, primo movimento del progetto complessivo «Concerti sul cielo e la terra«, Il sangue, che fin dal titolo cita i temi e i titoli che da qualche tempo costituiscono (in teatro come al cinema, e talvolta anche nelle polemiche che ne sono divampate) il territorio culturale e umano di Delbono. Un artista inquieto (al di là della facile tautologia) che con una sensibilità tutta personale riesce a leggere la situazione sociale e politica attorno a lui anche attraverso la propria biografia (ha recentemente subito la perdita dolorosa della madre). La condizione tutta particolare della orfanità di Edipo, spogliata dell’aura mitologica della maledizione divina e della Chimera, dell’assassinio ignaro del padre, e della morte che si dà la madre per aver concepito, con lui figlio, altri figli destinati alla maledizione e all’infelicità, diviene la sofferente condizione di sradicamento di una creatura di oggi. Costretto a misurarsi con la morte e peggio ancora con la vita, ovvero il grumo di rapporti malati e dei non/rapporti di sofferenza che lo allontanano da speranze e illusioni, ma anzi tendono a rinchiuderlo in una invalicabile gabbia di sofferenza.
«Solo colui che ha attraversato indenne il confine della vita, solo quell’uomo puoi chiamare felice» dice Sofocle del suo Edipo, e in qualche modo è questa la traccia del percorso che Pippo Delbono e Petra Magoni, con le musiche preziose che Ilaria Fantin trae da strumenti antichi come il liuto e l’opharion (e quando serve dalla chitarra elettrica), tracciano sul palcoscenico storico dell’Olimpico. Le parole di Pippo trovano eco e musicalità nei ruggiti e nelle cascate vocali di Petra, per poi ricomporsi nelle volute fascinose di melodie rinascimentali, da Peri e Caccini al sommo Monteverdi. Anche se le performances di lei conquistano il pubblico variando in un gospel o in un hit rock dove freme una condizione umana combattuta e gridata. Ma poi si sprofonda in radici ancestrali,come l’antico canto del contadino pugliese all’Antica terra mia che guarda sconsolato Nebbia alla valle. E con quelle olive benedette e insieme dolorose, siamo già nei territori psicoetnologici indagati dal genio di Ernesto De Martino…
Insomma è una grande fascinazione quella che in poco più di un’ora si può percorrere sul proprio Sangue. La meta è proprio la speranza, che solo l’arte, in questo caso, può dare. In questo senso, un concentrato, consapevole Delbono, e alla Magoni capace di ogni acustico prodigio, fanno da affidabili battistrada. Non che inventino soluzioni miracolose, ma quella solitudine dolorante, che da Edipo abbiamo ereditato e troppo spesso ci abita, gradualmente si dissolve. E alla fine, tra gli applausi scroscianti che fanno rimbombare le sacre volte del teatro, si capisce che tutto il pubblico comincia a intravederne almeno la possibilità.

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