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Il sangue dei senza nome

È una strage annunciata quella dei profughi di Tajoura, provocata dai raid aerei delle forze militari del leader della Cirenaica Haftar. E riguarda da vicino, a quanto pare, il governo […]

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 4 luglio 2019

È una strage annunciata quella dei profughi di Tajoura, provocata dai raid aerei delle forze militari del leader della Cirenaica Haftar. E riguarda da vicino, a quanto pare, il governo di contratto Lega-M5s; visto che ieri il ministro razzista della sicurezza bis, Matteo Salvini – con evidente coda di paglia – si è sentito in dovere di denunciarla. Invitando l’Europa, non si capisce bene, a quale «intervento».

Come se lui non c’entrasse nulla. Come se lui non avesse descritto ripetutamente, in modo ossessivo quanto menzognero, il mantra che lì tutto è tranquillo per i migranti, che «La Libia è un posto sicuro» dove riportarli indietro anche con la forza, bombardando le navi delle «Ong-scafiste» se necessario per affondarle come ha chiesto a viva voce la degna sodale Giorgia Meloni. Farebbe meglio a tacere Salvini. Forse che non sapeva che i centri di detenzione e i campi dei rifugiati – che in visita allegra a Tripoli arrivò a definre «all’avanguardia» – sono – come a Tajoura nella retrovia militare delle milizie di Misurata – accanto a caserme e depositi di armi, vale a dire target di guerra nemmeno mimetizzati in questa nuova sanguinosa guerra civile?

È quello di Tajoura un massacro «scontato» di decine e decine di inermi e indifesi che anche da morti resteranno senza nome. Tra loro aleggia la memoria coloniale italiana: sono tutti eritrei e somali. E noi invece vorremmo conoscerli uno per uno quei nomi di donne, uomini, bambini, anziani.

Una infamia che urla contro la sordità politica di questo governo irresponsabile e ambiguo che strizza l’occhio a Serraj e stringe le mani a Haftar, purché entrambi, subito e in prospettiva, garantiscano il blocco dei migranti.

È un massacro che diventa spartiacque tra verità e menzogna di Stato. Anche grazie all’ordinanza sulla Sea Watch 3 della gip di Agrigento che ha ripetuto che la Libia e anche la Tunisia non sono porti sicuri; quello libico è territorio conteso a mano armata da eserciti e milizie contrapposte ed è in guerra.

E non solo non è sicuro, è da evacuare e da soccorrere. Visto che le agenzie dell’Onu e Amnesty International parlano ormai di 100mila sfollati libici, mentre insistono a denunciare i «crimini di guerra» commessi sia dalle forze del generale Khalifa Haftar, all’offensiva per conquistare la Tripolitania con appoggi nemmeno nascosti di Francia ed Emiratai Arabi; sia da quelle del «nostro» alleato di Tripoli, riconosciuto dalla cosiddetta «comunità internazionale, Fayez al Serraj. Ma è forse una novità oppure una scoperta recente la definizione della Libia come Paese in guerra? E dichiarare come criminale ogni respingimento dei migranti in fuga da quell’orrore fatto di torture, carceri, campi di concentramento? Il manifesto ha denunciato questa condizione addirittura quando la guerra non c’era, quando c’era ancora al potere l’alleato Gheddafi; e non ha smesso di farlo quando, dopo proditoria azione armata della Nato durata almeno sei mesi, si sono insediate al potere a Tripoli forze islamiste, sedicenti democratiche e d’opposizione. E soprattutto abbiamo alzato la voce due anni fa, inascoltati, quando il governo Renzi, con il ministro degli interni Minniti, insieme all’Unione europea hanno deciso di esternalizzare nel «posto sicuro» della Libia la disperazione dei migranti: perché l’accoglienza, diceva Minniti, metteva in discussione la democrazia; e già, due anni fa si cominciavano a criminalizzare le Ong che invece soccorrevano a mare gli scampati ai tanti naufragi che hanno trasformato il Mediterraneo nella nostra rimossa fossa comune.

Così alla fine Salvini, il ministro dell’Inferno, ha continuato lo «stile coloniale» che ha trovato per gestire la sua aggressiva campagna sulle «invasioni», sulla criminalizzazione estesa dell’accoglienza, sul Decreto sicurezza bis, trovando non un sentiero in salita ma un’autostrada aperta. Ora con grande ritardo il Pd ne discute e si accorge dell’errore-orrore provocato e non ha partecipato al voto sui nuovi aiuti al regime di Tripoli. Meglio tardi che mai. Ma intanto il sì al sostegno alle milizie a caccia di migranti che recitano la parte della Guardia costiera libica -forte delle corvette già consegnate dal governo Gentiloni -, era già stato dato un mese fa. Così la scelta di «smarcarsi» all’ultimo momento, rimane all’interno di una ideologia: l’adesione sostanziale all’«ingerenza umanitaria» dell’intervento militare Nato nel 2011.

A quando una riflessione sui risultati di destra di una scelta interventista considerata in modo scellerato «di sinistra, e sull’attualità dell’articolo 11 della Costituzione che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali?

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