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Il sacro verbo del funk

Il sacro verbo del funkThe Buttshakers

Quattro band scatenate con cui è impossibile restare fermi. Parla Ciara Thompson, vocalist dei Buttshakers

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 10 marzo 2018

Il funk, con la sua incredibile capacità di macinare ritmi e scatenare danze, è meravigliosamente in forma. Una pletora di musicisti proveniente da ogni latitudine è, infatti, impegnata da anni (si moltiplicano le etichette: nu soul, nu funk ecc.) a tramandare il sacro verbo con dedizione totale, in bilico tra il rispetto della tradizione e la personale interpretazione. Tra le migliori realtà del momento spicca la band francese The Buttshakers che di recente ha pubblicato con Underground Records il nuovo lavoro Sweet Rewards. Un gran bel disco per una formazione che è in giro da diverso tempo, come ci racconta la possente vocalist Ciara Thompson, originaria del Midwest ma residente oltralpe: «Quando suoni in una band da dieci anni, diventa davvero parte di te. È strano perché solo ora ho iniziato a pensare a quello che questo decade ha significato. Quando partimmo con The Buttshakers avevo ventun’anni, ero una bambina appena arrivata in Europa, semplicemente entusiasta di viaggiare e di essere pagata per cantare. I primi anni sono stati come una folle corsa… vuoi solo uscire, creare e suonare». La cantante afroamericana narra con la medesima passione entusiasmi e difficoltà della prima ora, poi tramutatisi in altro: «All’inizio abbiamo avuto tutti un lavoro di merda, io ho lavorato nei bar, nei coffee shop, nei negozi di abbigliamento, nella sezione imballaggi degli autotrasporti. Ora guardando indietro, affiorano tanti ricordi, storie pazze che abbiamo promesso di non raccontare mai a nessuno, mai. In contemporanea il futuro sembra sempre più stimolante, perché ogni album è come ripartire da capo. Registrare Sweet Rewards è stato come innamorarsi di nuovo, con quello che fai, con l’essere un “artista”, sia in fase di composizione che dal vivo». Lo stesso ardore narrativo, i transalpini lo dimostrano anche nei testi, particolarmente in In the City dove raccontano dei drammatici fatti di Ferguson e del movimento Black Lives Matter, mescolando temi sociali a melodie soul-funk. Se i riferimenti di Ciara Thompson fanno pensare a Tina Turner e Marlena Shaw, anche Durand Jones assieme ai suoi The Indications, non fa mistero che figure come Charles Bradley e Sharon Jones abbiano per lui un peso. Il bandleader che arriva da un minuscolo sobborgo rurale della Louisiana, adagiato sugli argini del fiume Mississippi, è cresciuto di fatto in Indiana. Stato in cui nel 2016, grazie alla minuscola ma agguerrita Colemine Records, ha dato vita al suo omonimo lavoro d’esordio. Quella pregevole incisione assurge oggi a nuova vita grazie alla ristampa della Dead Oceans, la quale ha aggiunto nell’attuale versione Deluxe una serie di registrazioni dal vivo molto interessanti dove Durand manifesta una vicinanza artistica a personaggi come Lee Fields e Eldridge Holmes.

Con i suoi sodali, alcuni dei quali di lungo corso sin dalla giovinezza, fa ben sperare per il futuro: un indubbio carisma e una evidente attitudine all’interpretazione soul ne fanno un personaggio da tenere in attenta osservazione. Quali siano gli orizzonti raggiungibili è ben evidente nella ballata strappacuore Can’t Keep My Cool e nel sincopato e saltellante slow funk Now I’m Gone, ambedue tra le tracce aggiunte extra. A sole sessanta miglia dal luogo di nascita del giovane Jones, a New Orleans brilla la stella dei The Soul Project, anche loro freschi di uscita con The Long Hustle (Soul Universal Productions).

Il quintetto si muove in equilibrio tra soul-jazz e funk, implementando i tipici suoni della brass band grazie alla presenza di una valida sezione fiati. La formazione è capitanata da Jon Cristian Duque, il quale dopo aver acquisito una significativa esperienza come chitarrista ritmico di Walter «Wolfman» Washington, ha dato vita ai Project, forgiando un personale e convincente stile grazie a una lunga esperienza. Provenire da Nowlins equivale ad avere una spiccata sensibilità di base verso la melodia, attitudine decisamente presente nella formazione che in tal modo smussa asprezze e spigolature: se ne ha riprova in particolar modo in Celia e What’s the Meter (with You).

Evocare il mondo delle brass band svela sempre orizzonti inattesi. Soprende positivamente trovare un’orchestra che abbia queste caratteristiche a Gent, in Belgio. Si chiamano Brazzmatazz e sono diciannove musicisti che nelle lontane Fiandre orientali han fatto coincidere nella formazione in questione un palese e travolgente amore per il funk proveniente dalle viscere della Crescent City.

Nati nel 2014, dopo un iniziale ep del 2015, con Turbolence (Den Hoed Music Records) uscito alla fine dello scorso febbraio, deflagrano con una potenza e una maturità sorprendente. Seguendo il selvaggio direttore Sanne Werkers, autore di buona parte delle dodici incisioni presenti, arricchiscono con passaggi reggae e balkan la scrittura originale, comunque afferente alla tradizionale second line. La sensazione di stupore si ravvisa forte in Draikoolk e Up across and down e più in generale in tutto l’album, mai banale o scontato. Rischio questo dietro l’angolo per tutti gli ensemble dediti a queste sonorità, nel momento in cui entrano in studio di registrazione.

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