All’inizio della legislatura, nel 2013, tutti i partiti si affrettarono a presentare una proposta di legge contro il consumo di suolo. Dopo l’abbuffata edilizia del primi anni Duemila il tema sembrava finalmente al centro dell’agenda politica. Eppure, il testo scaturito dalla discussione che ha coinvolto le Commissioni Agricoltura ed Ambiente, votato alla Camera, s’è arenato al Senato. E dopo marzo si dovrà ripartire da capo. Con qualche certezza in più, come spiega al Gambero Verde Michele Munafò, ricercatore dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) e curatore del Rapporto sul consumo di suolo, la cui prima edizione è proprio del 2013. «Da quando abbiamo iniziato a misurare il fenomeno il sistema di monitoraggio è evoluto, più puntuale – dice Munafò – Sappiamo, ad esempio, che dagli anni ’50 al 2016 il consumo di suolo nazionale è passato dal 2,7 al 7,6 per cento. A oggi abbiamo pertanto ormai cementificato 23 mila kmq di territorio, pari alla dimensione di Campania, Molise e Liguria messe insieme. Sappiamo che alcune Regioni hanno perso oltre il 10% di suolo, e in particolare Campania, Lombardia e Veneto (le ultime due oltre il 12%). Sappiamo che le colate di cemento non risparmiano zone a pericolosità sismica (oggi è ricoperto oltre il 7% nelle aree a pericolosità alta e quasi il 5% in quelle a pericolosità molto alta), idraulica (oltre 257.000 ettari, l’11% del totale del suolo artificiale nazionale) e da frana (circa l’11,8% del totale nazionale), ma nemmeno la fascia costiera entro i 300 metri dal mare, le aree protette (32.800 ettari di territorio consumato ed un aumento di ulteriori 48 ettari tra il 2015-2016) e i parchi nazionali (nell’Arcipelago di La Maddalena e nel Parco nazionale del Circeo)».

«Sappiamo anche – continua Munafò – che nel corso degli ultimi anni c’è stato un effettivo rallentamento del consumo di suolo, passato dagli 8 metri quadrati al secondo del periodo 2000-2010 ai 3 metri quadrati al secondo del periodo 2015-2016, ma restiamo preoccupati osservando uno spostamento nelle dinamiche di trasformazione: gli interventi edilizi si concentrano nel tessuto urbano disperso, e si parla di «densificazione urbana». Anche se la città compatta è più efficiente, quest’idea ha una connotazione negativa: il territorio italiano è caratterizzato da ampie superficie di aree a bassa densità, e pensare di densificarle significa creare un consumo di suolo enorme. Si tratta di un elemento negativo, che fa perdere capacità alle aree urbane di far fronte a problemi ambientali crescenti, da quelli legati al dissesto idrogeologico alla riduzione delle permeabilità». I tre metri quadrati al secondo, continua Munafò, non devono essere visti come un successo, perché nascondono un problema: «È crollata l’edilizia, e in termini percentuali sul consumo di suolo oggi pesano di più le infrastrutture, come le nuove autostrade. Questo fenomeno lo stiamo indagando per il sesto Rapporto sul consumo di suolo, che presentiamo a giugno 2018. Già oggi oltre il 40% del territorio artificiale è causato dalle infrastrutture, che rappresentano sempre trasformazioni irreversibili, permanenti».

Ecco perché, secondo il ricercatore dell’Ispra, non è bello che la legge si sia fermata al Senato: «L’assenza di una normativa nazionale è dal nostro punto di vista una debolezza del sistema di tutela del suolo. Senza un intervento di indirizzo, non potrà mai esserci un quadro omogeneo nazionale: alcune Regioni hanno normato il tema, ma con testi che sono poco coerenti tra loro, e non rispondono agli indirizzi comunitari in termini di azzeramento del consumo di suolo, di tutela dei suoli agricoli, e anche nella definizione di «che cos’è consumo di suolo». Torniamo a un tema già toccato, quello della «densificazione urbana»: in alcune Regioni, non è considerata consumo di suolo. Si vincola solo l’urbanizzazione su suoli agricoli, e questo significa spingere il processo di artificializzazione, proprio in contesti che sono importantissimi, quei pochi «Spazi Aperti» che caratterizzano le pianure, i fondovalle e le coste del Paese».

La definizione di «Spazi Aperti» per definire e dar valore al non costruito in ambito urbano è di Paolo Pileri, docente del Politecnico di Milano e autore con Matilde Casa del libro Il suolo sopra tutto (Altreconomia). Anche lui ha qualcosa da dire in merito alle Regioni e al consumo di suolo: «Da un lato si sono mostrate interessate e collaborative, partecipando alle audizioni con proposte che però stravolgono il disegno di legge, sul quale non erano d’accordo. Chi ha conoscenza delle macchine parlamentari sa bene che la cosa più dolorosa ma silenziosa per incartare una legge è fare una proposta elegante ma stravolgente. Se poi a farla è un soggetto del calibro delle Regioni, il processo si blocca. E questo è accaduto l’indomani del 29 marzo 2017, quando le regioni sono state audite in Senato sul Ddl 2383. Non è ovviamente solo loro la responsabilità, ma credo che ne abbiano un bel po’, anche per le dichiarazioni che hanno rilasciato. Di fatto io ci leggo una posizione che dice: sul suolo facciamo noi e stop. A me, però, non risulta che stiano facendo niente di coordinato».

Pileri chiama «la fiera della confusione» il disordinato procedere delle Regioni a normare il consumo di suolo. Ed è convinto che con la nuova legislatura il Parlamento debba prendere in considerazione un’altro testo, «la proposta migliore, che arriva da fuori di quei palazzi ammalorati che sono votati a cercare un compromesso su tutto».

È il testo di legge popolare “Norme per l’arresto del consumo di suolo e per il riuso dei suoli urbanizzati”, promossa dal Forum Salviamo il paesaggio (http://www.salviamoilpaesaggio.it). Il frutto di un processo di scrittura che ha coinvolto 75 persone, tra cittadini ed esperti (e tra questi anche Munafò e Pileri).