Il ruolo di Dubcek vincitore e sconfitto
Rivoluzione di velluto Già con l’intervista a gennaio 1988 a «l’Unità» e poi all’Università di Bologna il 13 novembre, il leader della Primavera di Praga era riapparso sulla scena internazionale
Rivoluzione di velluto Già con l’intervista a gennaio 1988 a «l’Unità» e poi all’Università di Bologna il 13 novembre, il leader della Primavera di Praga era riapparso sulla scena internazionale
Rivoluzione di Velluto del 1989, non può essere dimenticato lo straordinario contributo di Alexander Dubcek al cambiamento in corso non solo a Praga negli anni Sessanta ma in tutto l’Est proprio sul finire degli anni Ottanta: parlo della sua riapparizione, dopo il suo allontanamento da ogni sede di potere negli anni Settanta dopo la tragedia della Primavera ’68 della quale era stato il protagonista.
Preceduto dall’intervista a l’Unità del 10 gennaio 1988, Alexander Dubcek, rimasto fino ad allora una “non persona”, giunse a Bologna il 13 novembre, su iniziativa dell’Università per ricevere la laurea honoris causa in Scienze Politiche. Fu un evento straordinario e ricco di emozioni per il grande interesse che suscitò nella cittadinanza, lo dimostrava la folla che si accalcava nelle vicinanze dell’hotel dove era ospitato, la viva curiosità che suscitò nel pubblico accademico e non, che stipava l’Aula magna nella quale tenne la lectio magistralis la mattina del 13. Il suo discorso fu preceduto da quelli delle autorità, ma è soprattutto da segnalare quanto disse, nella sua conclusione, il rappresentante degli studenti Alessandro Canelli: «Ritengo che quest’uomo debba essere d’esempio per tutti noi, d’esempio per tutti noi, soprattutto ora, di fronte all’incapacità delle forze politiche di stabilire regole forti che limitino l’influenza del potere finanziario ed economico nella vita pubblica». Sembrano parole scritte oggi. Da parte sua Guido Gambetta, preside della Facoltà e artefice del periglioso trasferimento del “sorvegliato speciale” dal suo Paese, volle sottolineare le sue qualità umane: «Che hanno permesso che l’esperienza del ’68 non si trasformasse allora in una tragedia nazionale e che invece sia oggi così viva da risultare ancora la strada per lo sviluppo del socialismo».
Luciano Antonetti, saggista e traduttore, che mi procurò l’invito per quell’appuntamento, era amico personale del leader e fu il suo indimenticabile e brillante interprete nell’occasione e per tutte le tappe del suo viaggio in Italia.
Dopo una citazione di Francesco d’Assisi, che Dubcek definì «un grande uomo del Medio Evo» che «è entrato nella storia per la sua fede, unica, nell’uomo», fece riferimento con insistenza all’umanesimo, il valore dell’umanesimo campeggia con particolare evidenza in tutto il suo discorso, associato a quello di democrazia e socialismo. «Abbiamo sofferto a causa dell’umanesimo», affermò, riferendosi alla storia delle due nazioni, ceca e slovacca, e proseguì: «Forse non sopravvaluto il carattere delle nostre due nazioni sostenendo che nel suo profondo, nella sua sostanza sono fissati la serietà, il rispetto per l’uomo e il rispetto per i grandi valori umani». Nel definire “socialismo dal volto umano” il movimento di rinascita del 1968 «volevamo esprimere – , proseguì – nel modo più conciso e significativo il rapporto tra valori umani e aspirazioni al socialismo». Ed in effetti, possiamo dire con Carlo Rosselli, «Il socialismo non è che lo sviluppo logico, sino alle sue estreme conseguenze, del principio di libertà». Esso tende alla realizzazione stessa di quei diritti sociali, al lavoro, all’abitazione, alla salute, all’istruzione, che fanno parte essenziale dei tanto conclamati “diritti umani”. Come ho più volte scritto un “socialismo della speranza” che genera speranza.
Grazie anche all’apporto della Biblioteca Universitaria di Bologna, che custodisce l’archivio del fotografo de l’Unità Rodrigo Pais, il quale ebbe la fortunata opportunità di recarsi a Praga proprio tra aprile e maggio, ho ricostruito in un volume di immagini e testi (Dubcek, il socialismo della speranza, Gangemi Roma) l’atmosfera di attesa, di rinascita civile, di entusiasmo che permeava la società cecoslovacca nei mesi in cui si dispiegava pacificamente un movimento di trasformazione senza eguali, a tutti i livelli.
Alla fine Dubcek vinse e allo stesso tempo fu sconfitto. Tornò a parlare al suo popolo il 19 novembre 1989, in una piazza Venceslao gremita di 200mila persone fu acclamato al grido «Dubcek al Castello», («Dubcek alla presidenza», che ha storicamente sede nel Castello di Praga). Quel ruolo nel volgere di pochi giorni venne assunto invece da Vaclav Havel, legato al dissenso del Forum civico e dei tanti movimenti che avevano contestato la normalizzazione. A Dubcek toccò il ruolo di presidente del Parlamento ancora federale. Per salvare, lui slovacco, quella federalità, frutto concreto diretto della Primavera del ’68, si spese senza pari. E morì, correndo da Praga a Bratislava, per impedire la scissione in due della Cecoslovacchia in un incidente stradale nel 1992. In quell’anno il leader slovacco Vladimir Meciar e quello ceco Vaclav Havel, a tavolino, senza coinvolgere in un referendum la popolazione, decisero la spartizione, vale a dire un nuovo muro, una nuova frontiera che creava due entità che, federate, avevano costituito la forza del paese rinnovato proprio dalla svolta “di velluto”, “dolce” e “pacifica”. Se fu così “dolce” fu anche merito del lavorìo e del sorriso di Alexander Dubcek.
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